Anatomia di una strage: “Dark Night” di Tim Sutton

di Francesco Ruzzier

Nella notte tra il 19 e il 20 luglio James Holmes, ex dottorando di neuroscienze ventiquattrenne, aprì il fuoco durante la proiezione della prima del film Il cavaliere oscuro – Il ritorno in un cinema di Aurora, in Colorado. Nell’attacco ha ucciso 12 persone e ne ha ferite 58.

Prende spunto da questo agghiacciante fatto di cronaca Dark Night di Tim Sutton, un film che ambisce (riuscendoci in pieno) a costruire un’esperienza immersiva nell’orrore dell’alienazione del mondo di oggi.

Quando si verifica un atto di violenza, la prima reazione è l’orrore. Poi viene l’indignazione. Alla fine rimane solo un senso di apatia, finché un altro atto di violenza non rimette in moto l’intero processo daccapo, e questo perché ci siamo concessi di distogliere lo sguardo. Dark Night non vuole distogliere lo sguardo.

Queste le parole usate dal regista per descrivere la sua lucidissima indagine sulla condizione di un’America disperata: nulla nel film viene mai esplicitato a parole e nessun atto di violenza compiuto viene mostrato; mai un accenno (nemmeno una didascalia) sulla strage di Aurora, di cui il film rappresenta l’inevitabile prologo.

D’altronde, come insegnano i grandi classici del cinema horror, ciò che spaventa di più, ciò che fa salire la tensione alle stelle, è l’orrore che aleggia costantemente fuori dal nostro campo visivo: quello di una minaccia di cui si sente la presenza, ma che rimane sempre nascosta; che ci terrorizza perché impossibile da individuare e quindi neutralizzare.

E questo tipo di minaccia invisibile, questo male imperscrutabile, diventa, con il passare dei minuti, il protagonista assoluto dell’universo raccontato da Dark Night. È un mondo, quello messo in scena da Sutton, in cui non esiste più alcuna distinzione tra reale e virtuale, dove non vi è più traccia di un senso morale condiviso; un mondo in cui non sussiste l’idea che possano esserci delle conseguenze ad un’azione, poiché tutto è ormai immateriale e senza un vero senso. Da questo punto di vista Sutton è abilissimo a tradurre quest’ambiguità attraverso le immagini, riuscendo a creare, nonostante la struttura quasi anti-narrativa del film, un climax notevole che non trova alcuno sfogo all’interno del racconto proprio perché il male – capace di far sentire la propria presenza fin dai primi minuti – non ha bisogno di una rappresentazione diretta.

In questo senso c’è una scena particolarmente memorabile all’interno di Dark Night, in cui James Holmes, il ragazzo che poi compirà la strage, studia il suo “campo di battaglia” girando per le strade della cittadina del Colorado grazie a Google Street View: la realtà virtualizzata si sovrappone al mondo reale e a quello del ricostruito dal film, quasi ad indicare un’alternativa costantemente percorribile, in cui è sempre più facile perdersi, in cui sempre più persone cercano il proprio spazio e la propria dimensione, rischiando di rimanerne pericolosamente intrappolate.

E così Dark Night decide di lavorare per sottrazione, per ellissi narrative e soluzioni anti-spettacolari, evidenziando in questo modo il vuoto di una società svuotata di ogni emozione e priva di vita: un’alienazione ormai totale in cui il male e la violenza sembrano aver trovato la propria dimensione.

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