“È solo la fine del mondo”: un sussurrato addio fra l’isteria familiare

di Francesca Plesnizer

È solo la fine del mondo, uscito nelle sale il 7 dicembre, è l’ultimo film del giovane regista canadese Xavier Dolan, che a soli 27 anni è già a quota sei lungometraggi. La pellicola è tratta da una pièce teatrale del 1990 scritta dal drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce, morto di AIDS.

Il protagonista è Louis – interpretato da Gaspard Ulliel, che mostra un volto pieno di tenue espressività – anch’egli un drammaturgo di successo, giovane ed omosessuale, che dopo 12 anni di assenza da casa decide inaspettatamente di ritornarvi. Il motivo è svelato immediatamente: egli sta morendo e vuole dunque dirlo ai suoi cari, accomiatarsi da loro una volta per tutte. Il titolo così evocativo non allude tuttavia solo alla fine del suo mondo: per Louis la fine del mondo è rappresentata anche da quel ritorno in mezzo al caos delirante, al dolore, al baccano familiare che logora, annienta, e che lo spaventa – perché da tutto quello lui era fuggito.

C’è sua madre, Martine, una sgargiante Nathalie Baye che sembra uscita da uno dei migliori film di Almodovar: bella, seppure âgée, con capelli, trucco ed abiti chiassosi ma studiati ad arte per far colpo su quel suo figlio gay e famoso al quale vuole apparire variopinta. Sembra brillante come un quadro rinascimentale, ma viene tradita dai significativi primi piani di Dolan che svelano imparziali le sue rughe, tutti gli anni e i dolori che si porta appresso, nonché la sua fragilità. Una madre dovrebbe capire, capisce sempre, ma non Martine: quando ha l’opportunità di restare sola con suo figlio per dei brevi attimi, non scorge la morte nei suoi occhi. Al contrario, gli dice che lo trova bene, di poche parole come sempre, comunicativo solo grazie ai suoi sorrisi dei quali però non sente l’amarezza né la paura della fine imminente, impegnata com’è a portare avanti il chiacchiericcio che è la sua vita. C’è poi Léa Seydoux che veste i panni della sorella più piccola Suzanne, poco più che ventenne, acerba ed emozionatissima di rivedere quel fratello che nemmeno conosce – Louis se n’era andato quando lei era solo una bambina. Lo abbraccia con quella genuina felicità che non è mai impaccio quando si manifesta nella giovinezza, e lo porta nella sua cameretta che è proprio accanto a quella che era stata di Louis – e che lui intravede appena da una porta socchiusa, che per brevi attimi gli offre uno sguardo sul suo passato. Suzanne vorrebbe andarsene via da quella casa, ma lo dice come lo dicono quelli che in fondo sanno che non se ne andranno mai – forse lo dice solamente per fare colpo su suo fratello.

Tutto sommato lì sta bene, vede le sue amiche e ora ha anche la patente e la macchina, comprata da mamma, che deve però accompagnare a fare la spesa. Madre e figlia litigano, urlano, s’insultano per qualsiasi inezia, perché in fin dei conti sono troppo uguali l’una all’altra, ma per via del salto generazionale faticano a capirsi. Madre indiscreta e inopportuna, figlia considerata ancora una bambina e non un’adulta. Le due sanno però anche lasciarsi andare e ridere insieme quando ad un tratto, preparando il pranzo, ballano una ridicola sequenza imparata al corso di aerobica che frequentano insieme.
Nel film i protagonisti sorridono e si sorridono per brevi attimi, per poi tornare a colpirsi sempre più violentemente. I colpi peggiori li scaglia Antoine, il fratello maggiore, che qui ha il volto di un’invecchiato e iperattivo Vincent Cassel: è arrabbiato, agitato, insopportabile. Grida ed attacca tutti, non risparmia nessuno, abbaia giudizi e prese in giro condite da un’aggressività inaudita che mal si sopporta e che nasconde una sconfinata insicurezza: Antoine è il più grande all’anagrafe, ma è mediocre ed ordinario, sempre in ombra rispetto a Louis, il grande e famoso artista. Deride per non essere deriso – si vergogna di se stesso e si lascia dominare dall’ira. Eppure egli è rimasto, Louis no, lui si è perso tutto: è a questo merito che Antoine cerca di aggrapparsi per non affogare del tutto nel suo odio e nella sua frustrazione, ma non ci riesce, e continua a ribollire trincerato nella sua negatività. Se la prende perfino con sua moglie, Catherine, interpretata da una Marion Cotillard che sembra un ingenuo angelo del focolare: c’è insicurezza anche in lei, ma si manifesta come una delicata ed esile eleganza, una dolcezza sussurrata che la fa sembrare una donna d’altri tempi.

Catherine è forse la più imbarazzata di tutti, perché lei Louis non l’ha mai conosciuto, lo incontra per la prima volta. Eppure, in virtù certamente della sua sensibilità, ma anche perché non è della famiglia e non ha di lui nessuna immagine, lei è l’unica che sembra capirlo. Senza imporsi ascolta il detto ma anche il non detto di Louis, quei suoi silenzi enigmatici carichi di tensione, e parlando a bassa voce, con gentilezza, gli fa delle domande, legge ed interpreta i suoi sorrisi più di tutti gli altri.

La trama non è completamente incentrata sulla dipartita di Louis: c’è un’altra morte, non imminente ma al contrario annunciata e già conosciuta – quella dei loro rapporti familiari, uccisi dall’incomunicabilità, dall’aggressività, dal darsi sempre per scontati, dal non ascoltarsi mai per davvero. Non è la morte di Louis ad aleggiare tra i muri di quella casa che sembra una gabbia, palcoscenico principale dell’intera pellicola, bensì è il passato di tutti loro a galleggiare tutt’intorno, le cose dette mai e che mai verranno dette, perché genererebbero ulteriori e peggiori incomprensioni, conflitti.

Il nucleo familiare vede ciascuno dei suoi membri in un certo modo e tende a crearsi di esso una rappresentazione che poi resta quella per tutta la vita e che può stare incredibilmente stretta. Si finisce per credere che essa sia davvero il proprio Sé; solo allontanandosi si può riuscire a capire che si è qualcun’altro, come ha fatto Louis.

Il film parla di quanto è difficile uscire dai rigidi ruoli che gli altri, specie quelli più vicini a noi, ci assegnano. Il fratello talentuoso che se n’è andato e che viene venerato come un dio proprio in virtù di quella sua dolorosa assenza; il figlio maggiore mediocre, incazzato e dalla vita ordinaria, che prova piacere ad umiliare gli altri; la sorellina stronzetta che non sa nulla della vita e gioca a fare la grande; la madre petulante che parla troppo e racconta sempre gli stessi vecchi ricordi; la moglie debole e impacciata che non ha nient’altro di cui parlare se non i suoi figli.

“Perché Louis è tornato?” tutti se lo chiedono e glielo chiedono, ma non vogliono davvero conoscere la risposta – sono troppo presi dalla commedia che devono portare avanti, non sanno liberarsi dei panni che si sono reciprocamente (auto)imposti. Tutto dev’essere perfetto, in quella giornata: gli antipasti, il pranzo e il dessert, la casa, perfino i ricordi. La divinità di casa è tornata e va accolta come merita: con l’imbarazzo di quando non conosci affatto una persona con la quale hai diviso il grembo materno e condividi il sangue, con le accuse e le recriminazioni – perché un abbandono non lo si supera facilmente, resta dentro, come una cicatrice indelebile ma invisibile in superficie. Martine avrebbe voluto aiuto da Louis per gli altri suoi due figli, per infondere loro la sicurezza che solo lui invece sembra avere; avrebbe voluto il suo prediletto più vicino, ma lo ammira: avere un figlio così straordinario, rende in fondo straordinaria anche lei. Anche Suzanne è orgogliosa di quel fratello celebre, tanto che la sua cameretta è tappezzata dagli articoli su di lui; lo segue da lontano, ma come si segue una celebrità della quale non sappiamo nulla.

Il rapporto più controverso è quello tra Louis e Antoine: l’aggressione peggiore arriva proprio da quest’ultimo, forse quello che ha più sofferto e più soffre. Di fronte a Louis Antoine si vergogna di quello che fa per vivere e perfino della sua delicata moglie: teme che possa annoiarlo con i suoi inutili discorsi sui loro figli, i nipoti che Louis non ha mai visto. Antoine la schiaccia e la fa sentire piccola, e lei si scusa – per sé ma anche per suo marito. I due fratelli passano del tempo da soli mentre vanno in macchina a comprare le sigarette, ma girano a vuoto, letteralmente e metaforicamente: Louis cerca dei punti di contatto, ma Antoine non glielo permette e come una belva gli sputa addosso tutto il veleno che ha dentro, la frustrazione sedimentata ormai nella sua interiorità. Vuole che Louis capisca che non c’è stato per troppo tempo e che non può tornare adesso e sperare di trovare qualcosa, che quel suo ritorno sembra ridicolo, assurdo, impensabile, inaccettabile.

Louis tace, per quasi tutto il film, parla sussurrando, quasi scusandosi della sua presenza, quasi adeguandosi a quello che lo aspetta: il vuoto, l’oblio, l’assenza di vita.

Forse andava bene a tutti che Louis fosse lontano – a lui compreso. Quella sua inattesa e inspiegabile ricomparsa nel luogo dove la sua vita ha avuto inizio porta scompiglio, ma dà alla famiglia l’occasione per far uscire tutto quello che hanno dentro – invidia, ira, nostalgia, tristezza, rimpianti, frustrazione, odio. È un’opportunità per mandare in scena il loro consolidato dramma familiare, che funziona solo se Louis fa la parte del fantasma. Il protagonista, con la sua sola presenza, sembra capace di far esplodere e portare alla luce tutta l’isteria della propria famiglia, rendendo quelle pene, quelle grida e quei silenzi, inaspettatamente fecondi – rendendo le loro esistenze più interessanti. Forse però, tutto questo è troppo per loro: loro, infatti, ci sono sempre stati – ma non Louis: lui non ci deve essere, fra poco se ne andrà per sempre.

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