“…e tu slegalo subito”. Intervista a Giovanna del Giudice

a cura di Andrea Muni

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Le chiederei di cominciare raccontandoci brevemente qual è la storia che la lega alla città di Trieste, a Franco Basaglia e alla campagna “…e tu slegalo subito”.

Nel dicembre del ’71 ho iniziato a lavorare a Trieste nell’Ospedale psichiatrico, di cui dall’agosto Franco Basaglia era divenuto direttore. Ero uno dei giovani medici, appena laureati, non contaminati dalla psichiatria tradizionale, con cui Basaglia aveva deciso di affrontare la sfida della chiusura del manicomio. Il primo reparto in cui ho lavorato è stato quello dell’accettazione, dove venivano accolti gli uomini in un ricovero di norma coatto. La scena, veramente quotidiana, era l’arrivo di uomini, giovani, vecchi, in qualsiasi stato fisico o psichico, stesi sulle barelle e legati con alte cinghie di cuoio, in condizioni disumane. Di fronte a questo Basaglia ci diceva che l’atto, da cui solo poteva prendere avvio un percorso di cura, era slegarli immediatamente. Questo imperativo etico e scientifico, “…e tu slegalo subito”, è diventato il titolo della campagna promossa dal Forum di Salute Mentale, come del mio ultimo libro.

L’abolizione della contenzione e dei metodi coercitivi –camerini di isolamento, letti a rete – compreso quelle stesse barriere fisico-architettoniche – porte chiuse, reti di recinzione, inferriate – che limitavano le persone in uno spazio ristretto chiamato appunto “manicomio”, sono stati i primi atti che hanno caratterizzato in quegli anni, a Trieste ma anche in altre esperienze innovative italiane, i percorsi della de-istituzionalizzazione. Devo dire, al contempo, che dopo l’emanazione della Legge 180/78 l’impegno per chiudere gli ospedali psichiatrici ha forse indirettamente relegato in secondo piano la questione della contenzione, la quale è sopravvissuta carsicamente. Dobbiamo ricordare che se Trieste è il primo manicomio a chiudere nel mondo, nel 1980, l’ultimo manicomio, o “residuo” manicomiale, a chiudere in Italia è stato il Santa Maria della Pietà a Roma, addirittura nel 1999. Per anni la questione della contenzione è rimasta come “sospesa”, non affrontata in un dibattito collettivo, come se non ci potessimo permette di tornare sulla questione dei trattamenti coercitivi che, in teoria, la piena applicazione della Legge 180 avrebbe dovuto scongiurare, tesi a chiudere i “residui manicomiali” e a costruire e a sperimentarci nei nuovi servizi territoriali.

Nel 2003, quando abbiamo dato vita al Forum salute mentale con l’obiettivo di guardare criticamente alla qualità delle pratiche e agli stili operativi dei servizi e di colmare la dissociazione tra gli enunciati e le pratiche, il tema della contenzione è stato posto come una delle priorità da affrontare. Contenzione mai finita, o forse riproposta, dacché per molti operatori in molte province italiane, il processo di messa in crisi della psichiatria e dei paradigmi fondanti il manicomio non era mai avvenuto.

Lei racconta nel suo libro una storia che si potrebbe definire personale o, meglio, una storia in cui il tema della contenzione si lega ad un suo episodio esistenziale e professionale preciso: il lavoro di dirigente dei Servizi della provincia di Cagliari e la morte per contenzione di Giuseppe Casu.

Sono andata a lavorare a Cagliari nel marzo del 2006, durante la giunta Soru, quando già da un anno Peppe Dell’Acqua era consulente regionale per la salute mentale, con il compito di costituire il Dipartimento di salute mentale nella provincia di Cagliari e di qualificare le pratiche dei servizi. In Sardegna pareva che la 180 non fosse mai arrivata. E non lo dico per iperbole. La Sardegna era l’unica regione italiana in cui non erano ancora costituiti i Dipartimenti per la salute mentale, quella con il numero maggiore di internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (più del doppio della media italiana), con la maggior percentuale di trattamenti sanitari obbligatori, in cui c’erano due servizi psichiatrici, sui nove italiani, in cui si faceva la terapia elettro-convulsivante… A Cagliari, nel 1998, la chiusura del manicomio di Villa Clara era avvenuta poi con una “deportazione” degli ultimi ricoverati in istituti per disabili. Il caso delle scorse settimane sui maltrattamenti e violenze sui malati di mente riguardava proprio uno di questi istituti: il centro Aias di Decimomannu (Ca). Dopo tre mesi che lavoro a Cagliari vengo drammaticamente attraversata dalle morte di un uomo, Giuseppe Casu, rimasto legato al letto nel servizio psichiatrico ospedaliero per sette giorni di seguito fino alla morte. Casu muore il 22 giugno 2006.

Cosa faceva Giuseppe Casu?

Era un venditore ambulante abusivo di frutta e verdura nella città di Quartu. Abusivo perché, non avendo la quinta elementare, non aveva potuto accedere alla qualifica. Era quasi un simbolo per gli ambulanti del luogo, così il giorno che il sindaco di Quartu ha deciso di ripulire la città dagli ambulanti abusivi lui era il capro espiatorio designato. I vigili gli hanno dato per due giorni di fila una multa di 5.000 euro. Alla seconda multa Giuseppe Casu reagisce, si infuria, e allora i vigili chiedono l’interventi del Centro di salute mentale di zona, che lo ricovera nel servizio psichiatrico ospedaliero di Cagliari, accettando di svolgere un ruolo di tutore dell’ordine. La diagnosi è di agitazione psicomotoria, il documento che autorizza il trattamento sanitario obbligatorio emesso dal sindaco è un prestampato. Nel servizio ospedaliero, in un percorso noto, non accettando di prendere i farmaci, Casu viene legato, e così per sette giorni fino alla morte.

Io non sono informata dagli operatori della morte di Casu neppure nella riunione avvenuta nel servizio ospedaliero proprio cinque giorni dopo quella morte, in cui il principale degli argomenti trattati era stato proprio quello dell’uso della contenzione. Avevo organizzato nel servizio una serie di riunioni per affrontare le numerose criticità presenti: un numero di posti letto (32) superiore a quanto la legge prescrive (16), il ricorso routinario alla contenzione, la presenza di una guardia giurata fino al maggio di quell’anno armata, le porte chiuse, l’utilizzo dell’elettroshock… Il servizio ospedaliero era completamente organizzato intorno alla pericolosità del malato di mente.

Quella della sicurezza è una questione molto delicata, riesplosa in particolare durante il 2013 con il tragico omicidio della dottoressa Paola Labriola nel Dsm di Bari.

Il tema della pericolosità ritorna nei servizi organizzati sul modello medico organico, come ambulatori nel territorio che aspettano il malato e non si muovono verso la comunità, verso i luoghi dove le persone vivono, non affrontano la sofferenza quando questa si manifesta, non sono organizzati su un modello di accoglienza della domanda senza selezione per gravità e diagnosi, che non praticano un lavoro di equipe… Ma tornando a Cagliari, Casu è stata la prima morte per contenzione “non silenziata”, in cui la famiglia denuncia e chiede verità e giustizia, sostenuta dall’associazione locale dei familiari e da un movimento civico.

Tra il 2006 e il 2009 ci sono quattro morti in Italia di cui si riesce a venire a sapere: uno a Cagliari (Casu), uno a Forlì (dove è la Lega a denunciare quella morte in Consiglio regionale), una vecchietta a Bari, e Mastrogiovanni in provincia di Salerno. Nel 2010, anche in relazioni allo scandalo di queste morti per contenzione, la Conferenza Stato Regioni emana un documento di raccomandazioni per la prevenzione della contenzione in psichiatria.

Perché racconto queste morti nel mio libro? Perché non se ne parla, perché queste sono stati i casi in cui qualcuno ha denunciato o si è formato intorno alle famiglie un movimento civico che chiede giustizia. Se la gente inizia a parlarne possono accadere molte cose. Il fatto che la televisione ha fatto vedere le riprese della terribile agonia di Mastrogiovanni, riprese dalle telecamere di videosorveglianza interna, disponibile pure su youtube, ha fatto sì che questo trattamento inumano fosse conosciuto da tutti. Se la popolazione sa, tutto può cambiare.

Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di dare spazio alla campagna. A questo proposito però – proprio allo scopo di informare i nostri lettori, di fare informazione e cultura in maniera veramente critica e di venire incontro a quelle che potrebbero essere delle più che sensate obiezioni – vorrei farle una domanda “delicata”. Si tratta di una domanda che personalmente mi sono sempre immaginato come la domanda che un lettore che si trovi nello sforzo di informarsi su una questione così importante farebbe, per così dire, “a bruciapelo”. Questa domanda, la metto giù in maniera volutamente brutale, è: “ma se non la leghiamo e non la sediamo, cosa facciamo a un persona che sta ‘schizzando’?”. Vorrei chiederle dunque quali sono le reali misure alternative alla contenzione, chimica e meccanica e, poi, se ci sono dei gradi di tollerabilità della contenzione a suo avviso, o se le alternative non debbano passare per tutt’altri percorsi?

A mio avviso non ci sono gradi, né livelli, di tollerabilità della contenzione. La contenzione deve essere totalmente abolita. Tentando poi di rispondere alla domanda come si fa, prima di tutto dobbiamo interrogarci sui motivi per i quali la gente “schizza”, come ha detto lei, e dobbiamo chiederci che ruolo i trattamenti psichiatrici, le risposte istituzionali hanno nel far “schizzare” le persone. Quando una persona arriva a un servizio psichiatrico, certamente versa in una situazione delicata. A Cagliari, dove le ho detto che normalmente si legava, guarda caso, c’erano delle modalità di contatto talmente disumane da provocare, letteralmente, la violenza del “matto”. Quel che bisogna mettere a tema è il rapporto tra la persona dolente, sofferente, impaurita, e le forme di avvicinamento da parte degli operatori psichiatrici. Se dai tu i tempi all’altro mentre è in crisi, può succedere che scoppierà l’aggressività; se invece sei disponibile ad aspettare, a rispettare i suoi tempi ed ascoltare le sue domande o paure le cose possono cambiare. Vorrei chiarire che tutto ciò non toglie che esistono situazioni in cui ci si confronta con la violenza. Non si tratta affatto di negare questo, il problema è come lo affronti: se per prevaricare, per dominare, per correggere, o per mitigare, restringere, porre un “contenimento” a questa grande esplosione di dolore e di violenza.

È necessario avvicinarsi all’altro con calma, senza paura, insieme ad altri, in modo quasi da restringere la sofferenza in uno spazio fisico e mentale, senza però trasformare  questo in atto di violenza. A me, come psichiatra, è successo molte volte di vivere dei confronti fisici con l’altro: è sempre possibile che ci siano momenti di contatto, persino di colluttazione, può accadere di farsi del male, ma la differenza è che, in questo caso, il tentativo del “contenimento” prende comunque la forma di un confronto a tu per tu, di una situazione in cui si affrontano due individui, in cui tu pure rischi. E tutto ciò è molto diverso dall’atto di legare, che è veramente un atto che riduce l’altro a cosa, solo a corpo da correggere e domare. Sai, la cosa più incredibile di questo atto è che – alla fine – sei tu che leghi, tu che cosifichi, a cosificarti a tua volta, a divenire la figura pura del carnefice, ad abbruttirti fino al punto da divenire tu stesso semplicemente come quello che “lega i matti”.

Lacan diceva qualcosa di simile a proposito del sadismo, di come l’impossibilità a godere (o, in questo caso, l’impossibilità nello stabilire un contatto), condanni il soggetto – nel suo rapporto con l’altro – a trasformarsi in una sorta di feticcio nero, una sorta di caricatura “malvagia” della propria stessa impotenza.

Sì… è proprio la tua impotenza che verifichi. Non so se ha visto 87 ore, il film della Quatriglio sulla morte di Mastrogiovanni. È impressionante vedere come le donne e gli uomini, operatori, pulitori, entrano, puliscono a terra, ma non hanno uno sguardo per quest’uomo. C’è un atto di quasi accudimento come quello di pulire la stanza, ma non c’è la minima considerazione, la minima pietas nei confronti di quella “cosa” legata al letto.

Sono immagini terribili… che sarebbe davvero importante vedere coi propri occhi per toccare con mano ciò di cui stiamo parlando. Vorrei chiederle in conclusione una riflessione su un problema antico, per non dire congenito, della psichiatria. Cioè riguardo il fatto che la psichiatria nasce storicamente come una disciplina – all’incrocio tra il discorso medico e il discorso giudiziario – ancella del potere penale e coercitivo.

Sì, ma ce ne siamo liberati nei percorsi di de-istituzionalizzazione della psichiatria…

Eppure i problemi che lei espone mi sembrano testimoniare proprio di alcune non piccole sopravvivenze di questa antica unione…

Certo certo, è per questo che è importante questa campagna di denuncia e informazione. È importante pure far capire a tutti che stiamo parlando di una cosa che può succedere a chiunque, anche a me, tra qualche anno, se finirò in una casa di riposo. Siamo tutti soggetti a questo pericolo, almeno finché non troveremo un modo per ovviare a questa pratica di tortura. Noi dobbiamo sapere che questo ci riguarda, sia come questione civile, ma anche come questione privata. Ma bisogna contemporaneamente testimoniare che questo trattamento degradante e illecito è evitabile. C’è approssimativamente un 15% di servizi psichiatrici ospedalieri in cui non si lega, e questo testimonia che si può fare. Non è che in questi posti, per esempio a Trieste, ci siano matti speciali che si possono non legare, e altrove invece no. Questo va testimoniato con forza.

Anche Piero Cipriano nel suo libro parla, se non ricordo male, del tempo da trascorre individualmente con i contenuti, suggerendo questa pratica come una forma, precaria, per alleviare l’esperienza della contenzione.

Sì, Piero racconta nel libro di come lui lavori in un servizio psichiatrico restraint, e riesca a non legare mettendo a disposizione il proprio corpo, il proprio tempo, la propria competenza e fantasia per affrontare ogni volta in maniera diversa quella specifica storia, quello specifico disagio. In primo luogo il punto è che decidi a priori di non legare, e allora ti metti nella condizione di inventare nuove forme per “contenere” il disagio, il dolore e la violenza. Un secondo aspetto strutturale, decisivo, sono le modalità organizzative di un Dipartimento di salute mentale. È fondamentale come si organizza il sistema dei servizi. Nel mio libro parlo di Cagliari per parlare di molti luoghi in cui si lega: se si concentrano, come ad esempio succedeva a Cagliari, tutte le persone in crisi in unico luogo, è chiaro che la situazione diviene difficile da governare e può succedere di tutto. Noi, in Friuli Venezia Giulia, abbiamo organizzato Centri di salute mentale per una popolazione definita, aperti su sette giorni, sulle 24 ore, da dove parte il lavoro nei territori, nelle case, con posti letto per l’accoglienza di persone in crisi. Bisogna fare un lavoro di prevenzione, un lavoro vicino alle persone, alle famiglie per supportare anche la quotidianità della vita concreta. Sicuramente è centrale il modo del contatto con la persona nel momento del massimo di dolore, ma non tutti devono essere “eroici”, è altrettanto importante il dispositivo organizzativo. Sono due aspetti che si rimandano l’un l’altro. L “eroismo” e l’esposizione dei singoli sono sempre nobili, ma rischiano di restare tristemente precari se non sono accompagnati e protetti da un’organizzazione istituzionale che lavora logisticamente e strategicamente per prevenire o affrontare – in maniera prima di tutto sociale e culturale, e non solo farmacologica – l’esplosione del dolore, della crisi o dell’aggressività.

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