Economie della perdita

di Andrea Muni

“Economie della perdita” è, per certi versi, un tema involontariamente autocelebrativo. La storia della nostra associazione culturale e della nostra rivista – una storia che mi precede, e che comincia con la passione e il coraggio degli amici che le hanno dato vita ormai sette anni orsono – è infatti una storia di resistenza critica e culturale al pensiero unico da sempre gioiosamente agita, e vissuta, in pura perdita di tempo, di fama e di denaro.

Charta Sporca è per tutti noi, per noi che – giorno dopo giorno – la facciamo esistere, un puro e semplice gesto di dépense. Nessuno di noi ha mai pensato di ottenere alcunché, da nessun punto di vista, dedicandosi a quest’opera comune che, nella galassia intermittente del mondo culturale e del web, è riuscita a ritagliarsi negli ultimi anni uno spazio e un pubblico che non avremmo mai immaginato.
In un tempo e in un mondo in cui dire “cose” è più importante che avere cose da dire; in un tempo e in un mondo in cui non esistono quasi più manifestazioni culturali slegate da interessi autoriferiti di qualsiasi tipo (che siano di fama, di successo o di denaro, o ancora di strizzate d’occhio a personaggi in vista) la nostra linea è sempre stata quella di evitare con fermezza qualsiasi possibile, anche minima, compromissione. Charta sporca è un potlach, un dono provocatorio, un’offerta, una sfida al rilancio, per tutti e per nessuno.

L’utilitarismo – quella silenziosa religione a cui tutti, più o meno inavvertitamente, sacrifichiamo – ci ha insegnato che ogni scelta e ogni azione della vita sono guidate dall’interesse. Non solo, il suo massimo sacramento è il surreale atto di fede secondo cui, se ognuno persegue correttamente i propri interessi, la loro somma dovrebbe logicamente produrre il benessere del maggior numero (bisogna proprio essere sotto l’effetto di qualche potente droga ideologica per trovare vagamente fondata una simile frottola). La trappola dell’utilitarismo consiste infatti nell’aver modellato il significato delle parole “il mio bene” e della parola “interesse” con un tale livello di precisione da far sì che qualsiasi vita vissuta, deviando da questi nuovi dogmi, appaia – in primo luogo a chi la vive – indegna di essere vissuta.

Il discorso utilitarista è qualcosa di talmente logico che, mentre me ne prendo gioco, sento che mi viene da ridere, sento che solo un pagliaccio, o un idiota, potrebbe osare una simile parodia. Bataille diceva che il riso ci coglie nei momenti in cui facciamo un’esperienza, diretta e potente, del non-sapere. Il non-sapere infatti è tutto ciò che – pur provandolo sulla nostra pelle, pur essendolo – non ci appare logico, giusto, buono, conveniente… Tutto ciò che cade fuori dal buon senso e dall’utile sembra venirci incontro sotto forma di angoscia e oscurità; tutto ciò che devia dall’interesse deve essere percepito automaticamente come sconveniente, doloroso, ostile, colpevole e perciò sospinto dal discorso dominante fuori dal dominio di ciò che è giusto, serio e corretto conoscere (e quindi dire). Che ci scappi da ridere nel leggere, o nell’essere, una lucida apologia dell’infamia, del masochismo o della povertà, potrebbe non essere altro che il sintomo che ci stiamo inoltrando in quello che Bataille chiamava l’al di là del serio; il sintomo che stiamo varcando i confini di quello che ci conviene sapere. Nella logica dell’utile, del mio bene e dell’autorealizzazzione ci sono dei buchi così grandi da caderci dentro… buchi in cui – mentre cadiamo – non possiamo fare a meno di provare simultaneamente una grande paura e una irresistibile voglia di ridere.

Per tutti coloro che hanno manifestato “interessi” differenti da quelli modellati dal discorso dominante, i proprietari della verità e del sapere istituzionali hanno coniato, negli ultimi due secoli, splendidi nomi: “folle”, “criminale”, “vagabondo”, “drogato”, “perdigiorno”, “pervertito”, “ipercinetico”, “nevrotico”, “clandestino”, “erotomane”, “masochista” e chi più ne ha più ne metta.

Dovendo prendere sul serio questa “cultura” dominante, cosa potremmo – in tutta franchezza – dire di noi stessi? Dovremmo forse finalmente confessare di essere dei masochisti? Dovremmo forse promettere che espieremo i nostri peccati contro la “convenienza” facendoci rieducare da qualche bel master multimilionario che ci insegni finalmente come fare cultura in maniera “utile”, “seria”, “razionale”? Mi spiace per coloro che si sono chiesti, in questi anni, cosa ci passi per la testa, ma nessuno di noi si sente – ne si è mai sentito – un masochista. A tutti questi amici – vecchi e nuovi – vorrei ricordare con affetto che, a volte, perdere qualcosa di nocivo, di sterile, di triste, non è che un doppio guadagno.

L’interesse, l’utile, il “mio” bene sono il cancro della nostra cultura, della nostra società, di ognuno di noi… un cancro che si riverbera sempre più – e sempre più inavvertitamente – nel modo abituale, normale, “sano”, e perciò tristemente dominante, di fare cultura. Il fatto che questo interesse sia mio, a ben guardare, non significa automaticamente che è quello che voglio, significa solo che mi intacca, che mi abita come un cancro, come un’ulcera, come i pensieri giudicanti nella testa con cui mi hanno insegnato a confondermi al punto che li credo essere me.

Come in un surreale gioco di scatole cinesi, giorno dopo giorno abbiamo iniziato a sospettare, provandolo sulla nostra pelle, che l’unico modo per esistere nell’odierno panorama culturale (e nella vita in generale) è quello di diventare un cancro di questo stesso cancro. Ma soprattutto, quel che è più importante, è che forse abbiamo capito che essere questo cancro, questa economia della perdita, questo gioioso fallimento è l’unica strada che abbiamo a disposizione per continuare a divertirci, a divertirci davvero, insieme.

Abbiamo forse capito che questa economia e questa socializzazione delle perdite che siamo, sono l’unico modo per continuare a far sì che tra una parola e l’altra di quelle che vi offriamo – che si parli di Macbeth o di terrorismo, di Carmelo Bene o di follia – continui a colare, a trasudare, a ribollire, questa nostra passione inutile, questa nostra dépense: un dono provocatorio e senza riscatto possibile, che basta a se stesso e che, giorno per giorno, ci tiene sospesi sulla soglia di quel riso – e di quella paura – che ci fanno dire… ancora.

La vita? La morte? Talvolta butto l’occhio con amarezza verso il peggio; non potendone più, recito a scivolare nell’orrore. So che tutto è perduto; la luce che potrebbe infine illuminarmi brillerebbe per un morto. Tutto in me ride ciecamente alla vita. Cammino nella vita, con la leggerezza di un bambino, la reggo. Ascolto cadere la pioggia. La mia tristezza, le minacce di morte, e questa specie di paura, che distrugge ma indica un culmine, si agitano in me; tutto questo mi ossessiona, mi soffoca… ma vado oltre – andiamo oltre.

 

 

(Georges Bataille, Su Nietzsche)

Andiamo oltre con il “disagio della libertà” dell’Uomo dei dadi (Tieri), con La morte di un commesso viaggiatore (Zeper) e con un’apologia di Zdenek Zeman filtrata attraverso la caustica lucidità di Michel Houllebecq (Panda). Andiamo oltre affrontando il cruciale tema del lavoro con le recensioni (Goriup e Plesnizer) de L’ultima notte. Anti-Lavoro, Ateismo, Avventura, di Federico Campagna, e del recente film francese La legge del mercato di Stéphane Brizé. E infine, andiamo oltre riflettendo sulla nobile “infamia” dell’attore d’altri tempi (Moretti), e con una riflessione sul paradossale rapporto tra perdita ed eredità (Rosso).

Il nuovo numero è interamente leggibile cliccando qui.

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