Festa crudele. Considerazioni sul valore della festa e sui 10 anni di C.S.

di Piero Rosso

(illustrazione di Giada Pignotti)

Nel manifesto del primo numero di Charta Sporca, ancora in bianco e nero, a volte oggetto di scherno o disinteresse da parte dei compagni di università (il che non era in nessun modo garanzia della qualità dei nostri contenuti), ci impegnavamo ad adottare lo sguardo dell’apolide, sospendendo la nostra cittadinanza intellettuale.

Nella storia della rivista questi atti di sospensione sono ricorrenti, a partire dal nome che abbiamo scelto, rubato a una poesia di Pasolini che inizia così: “Bisogna assentarsi ogni tanto dai luoghi dei Doveri”. È un invito alla sospensione che si ritrova in tutto il componimento, a tratti illeggibile; è il poeta che rinuncia a dire tutto, che lascia uno spazio vuoto dal nome C.s., “Charta sporca”.

Forse dovremmo leggere e scrivere meno, specie quando ci accorgiamo che il lavoro intellettuale diventa ripetitivo e limitante. Forse, a volte, smettere di leggere è rivoluzionario; la pausa è rivoluzionaria. Parlare di “festa” può avere il senso profondo di un giorno solenne, sacro o profano, radicato nei cicli del tempo, come un’interruzione del lavoro o un’esplosione di atipica gioia.

Potremmo perfino dire che cominciammo tempo addietro, senza volerlo, a scrivere questo nuovo numero, ad accumulare materiale: la discussione sulla “festa” è un momento per riguardare ai nostri anni di attività e raccontarli diversamente. Dieci anni fa decidemmo di accogliere, insieme a Pasolini, la sporcizia che invadeva quella pagina, imparando col tempo a sospendere e cambiare passo, ad accumulare materiali e se necessario anche ad andare in letargo, a non dover battere per forza i piedi a tempo col mondo.

Dieci anni fa occupammo una facoltà universitaria, per viverla e cambiarla. È stata una festa, già all’epoca, davvero sporca: in una sala vecchia dai banchi consunti mangiavamo, discutevamo fino a tardi, dormivamo per terra nella polvere del dipartimento. Lì mettemmo le basi di questo nuovo numero. Chiedemmo ai ricercatori in sciopero di venire a farci lezione e quest’università in pausa perdurò, coinvolgendoci fino all’amicizia.

Fu questo il nostro rapporto con “pausa” e “conoscenza”, parole riunite nella formula benjaminana das Jetzt der Erkennbarkeit, ossia quel particolare “istante della conoscibilità” che si presenta proprio quando qualcosa è sul punto di scomparire (Walter Benjamin, Sul concetto di storia). Non stava scomparendo, nel 2010, proprio l’universitas della nostra università per dare spazio a un nuovo apprendimento più settoriale e imprenditoriale, più liberista e meno libero, più orrendamente formativo, con l’invasione del lavoro nello studio?

L’universus, in effetti, è fatto proprio di brillantezze che scompaiono; siamo capaci di conoscere un oggetto solo quando si consuma.

Dieci anni dopo scriviamo questo numero, proprio durante la pandemia che ci ha costretti a rallentare, a volte a fermarci.

Chiediamo: questo evento collettivo è davvero una pausa di conoscenza durante la quale il mondo, il Paese, la città, il quartiere vivono e pulsano come unici grandi organi? Questo confinamento non ha, invece, acquistato “qualche cosa di morto, di grottesco perfino, come i movimenti di chi danza per chi perde l’udito e non ode più la musica” (Kerényi, La religione antica nelle sue linee fondamentali), come una situazione festiva che non permette alla collettività di rigenerarsi, uno spettacolo a cui assistere da lontano, isolati in casa mentre interiorizziamo la solitudine, mascherati, sterilizzati, igienizzati?

I cittadini di Atene dalle fauces atrae (le fauci nere) descritti da Lucrezio non possono parlare per colpa delle piaghe in gola; la peste nel Decamerone viene raccontata, dopo una fuga in campagna, come la dissoluzione della solidarietà: “li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”; così il terremoto di Lisbona, che per Voltaire è l’occasione di mettere in crisi l’ingiunzione “tout est bien” (tutto è bene):

Filosofi che osate gridare tutto è bene,
venite a contemplar queste rovine orrende:
muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri.

E ancora il tumulto di San Martino, la famosa “rivolta del pane”, vissuta con distanza da Renzo Tramaglino: “‘Questa poi non è una bella cosa’, disse Renzo tra sé: ‘se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?’ “.

Sembra che per raccontare la festa sia necessario allontanarvisi; per una società che fonda la sua memoria sulla scrittura significa che il ricordo, anche di un dolore collettivo, è sempre un atto individuale, un oggetto di consumo del singolo. Un esempio si trova nelle feste mondane narrate da Proust:

Proust le ha composte come preparazioni gastronomiche offerte a un divoratore crudele – il dio del tempo astorico e dell’arte, di cui egli è vicario – e in cui la crudeltà del divoratore stringe preliminarmente sul cibo, che altrimenti non gli riuscirebbe appetibile, la contrapposizione fra il tempo storico delle feste narrate e il tempo astorico del narratore, dunque fra la situazione di chi è mangiato e quella di chi mangia, è implicitamente una dichiarazione dell’impossibilità della festa collettiva (Furio Jesi, Conoscibilità della festa).

È forte il legame tra gastronomia e festa, cioè il consumare la pausa:

Nel momento in cui, di solito, si ha ancora da vivere un’ora prima della distensione del pasto, noi sapevamo che di lì a qualche minuto avremmo visto arrivare una precoce insalata, un’omelette di favore, una bistecca immeritata. Il ricorrere di quel sabato asimmetrico era uno di quei piccoli avvenimenti interni, locali, quasi civici che nelle vite tranquille e nelle società chiuse creano una sorta di legame nazionale e divengono tema favorito delle conversazioni, delle battute, dei racconti esagerati ad arbitrio: sarebbe stato il nucleo bell’e pronto di un ciclo di leggende, se qualcuno di noi avesse avuto la vocazione epica (Proust, Dalla parte di Swann).

Per l’uomo moderno il fine settimana non è una festa, bensì una celebrazione, che richiede lavoro e consumo: “Non c’è tempo da perdere, non dimentichiamoci che è sabato!” (Proust). Se non c’è festa, non c’è nemmeno incontro tra generazioni. È l’esempio dell’Encierro in Festa mobile, la tradizionale corsa dei tori, un’altra festa che si conclude con tante piccole sconfitte individuali, e la cui unica dimensione collettiva è quella dello scontro:

Il patron gli aveva detto: ‘Siete tutti una génération perdue‘. ‘Ecco che cosa siete. Ecco che cosa siete tutti quanti’ disse Miss Stein. ‘Tutti voi giovani che avete fatto la guerra. Siete una generazione perduta.’ […] Pensavo a Miss Stein e a Sherwood Anderson e all’egotismo e alla pigrizia mentale contrapposti alla disciplina e pensavo chi è che chiama chi una generazione perduta? (Hemingway, Festa mobile)

La composizione di questo numero della rivista istiga i miei timori: con la mente alle sere di dieci anni fa, se ora raccontassi per intero la storia di Charta Sporca, non equivarrebbe a mangiarsene il ricordo, sfilarlo di bocca a chi contribuì ad aprire un nuovo spazio, sospendere le parole, lasciarle vagare, e sottrarlo a chi si aggiunse più tardi e aiutò a mantenerne il movimento? Come faremo, compagni di viaggio, se ora raccontassi tutto, a lasciare che la storia della nostra rivista, come quella di tutte le cose, maturi lontano da noi e un giorno, irriconoscibile, torni a sorprenderci?

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