I fantasmi della scacchiera

di Davide Pittioni

foto di Stefano Tieri

Fisher-Spassky 1972

Le frasi celebri, quelle che rimangono impresse a suggestionare anche le più lucide rappresentazioni, di certo non mancano. Soprattutto in un gioco così complesso e conflittuale. Da Kasparov, il campione russo, che sosteneva che “il gioco degli scacchi è il più violento che esista”, al suo rivale Karpov che, nonostante la sua apparenza fredda e burocratica, si lasciava scappare frasi struggenti, ma inesorabilmente spietate: “negli scacchi c’è tutto: amore, odio, desiderio di sopraffazione, la violenza dell’intelligenza che è la più tagliente, l’annientamento dell’avversario senza proibizioni. Poterlo finire quando è già caduto, senza pietà, qualcosa di molto simile a quello che nella morale si chiama omicidio”. Gli scacchi come una minuziosa, calcolata agonia, che si impossessa della mente e che deborda continuamente il perimetro della scacchiera. Come quando si colora di significati politici, ad esempio nella sfida tra Fisher e Spassky durante la guerra fredda; o di significati apocalittici, quando Kasparov sfidò il computer Deep Blue al grido di “difenderò la razza umana”. E le citazioni potrebbero continuare, come se quel lento e noioso sviluppo di pezzi sulla scacchiera divenisse altro nella mente trasportata dal gioco. Quasi la vita. O persino la morte, dietro il continuo riferimento alla sua fine fatale, in una perfetta sinfonia che come ultima nota suona lo “scacco matto”. E anche in questo caso gli aneddoti sembrerebbero infiniti: scacchisti che si fanno consumare da una feroce passione per le 64 caselle, la pazzia, la paranoia, la fatica che sembra materializzarsi nei loro corpi esili e febbrili.

Morphy-Paulsen 1857

Ma forse si sbaglierebbe nel considerare gli scacchi come un semplice scontro psicologico, fatto di manovre che si nascondono allo sguardo dell’avversario, che lo sorprendono nel suo angolo buio mentre si popola di figure medievali. A guardare quello che un tempo era un gioco considerato alla stregua dell’azzardo, inadatto a uomini d’onore, gli scacchi sembrano apparire oggi sotto un’insegna più professionale, come uno sport dove lo studio e l’allenamento la fanno da padrone, senza colpi di testa o violenze. Ugualmente animato, però, da istanti di follia: decisioni avventate o studiate che si mostrano ad esempio nel sacrificio di un pezzo, in vista di un vantaggio posizionale o della sequenza forzata che porterà allo scacco matto. Istanti in cui la follia appartiene ad un’altra realtà, al di là di ogni riduzione psicologica, ed è “giocata” dalla disposizione dei pezzi, più che dal giocatore. Qualcosa di diverso dalle storiche analisi di Reuben Fine, giocatore di scacchi di altissimo livello e psicanalista, che dedicò molti saggi all’analisi della psicologia dello scacchista, nel tentativo di spiegare le manie di persecuzione di Paul Morphy o le paranoie di Bobby Fisher. È come se esistesse un carattere folle degli scacchi stessi, un rovescio fantasmagorico che corre parallelo alla razionalità delle aperture, delle variazioni, delle strategie di gioco. Un mondo conflittuale e seducente, dove il tempo – sospeso nelle lunghe riflessioni – diviene un vincolo paradossale, ma distante, e il ticchettio dei secondi solo il sottofondo di una variazione che sembra perdersi nel vuoto delle infinite partite giocabili, uno spazio illimitato che solo in un secondo momento dovrà confrontarsi con la finitezza della durata di gioco.

Kasparov-Karpov 1990

C’è una purezza, o un’ambizione di purezza, che riempie i racconti sugli scacchi. Oltre la materialità dei pezzi, la loro consistenza, la postura dell’avversario, l’orologio che ne limita il tempo. Una leggerezza che non ha nulla a che fare con le biografie, con i premi o il successo, e che invece prende il gioco nei suoi movimenti ideali, solo immaginati sulla scacchiera. Nell’Arcangelo degli scacchi, scritto da Paolo Maurensig, il campione ottocentesco Paul Morphy confida: “Mi piaceva giocare alla cieca perché allora coglievo la vera essenza degli scacchi, la ‘musica del gioco’. Quelle statuine di legno erano di troppo”. Di troppo perché goffe, incapaci di pesare la leggerezza dei movimenti che dovevano rappresentare. Entità ideali che si fronteggiano, variazioni che tramano nell’ombra: movimenti che sembrano apparizioni di fantasmi, nello spazio che si forma tra la disposizione materiale dei pezzi e i ragionamenti sulla mossa da compiere. In effetti, se il calcolo è il motore instancabile della partita, c’è qualcosa d’altro che ne indirizza lo sviluppo. Non a caso Kasparov sosteneva che “il maestro di scacchi non cerca la mossa migliore: la vede”. Una visione improvvisa che andrà poi calcolata, studiata, sminuzzata. Ma per sempre una visione “alla cieca”, che incontra i fantasmi che si materializzano negli interstizi delle posizioni, in quella tensione conflittuale che racchiude la partita, rendendola unica.

Fisher-Panno 1970

Come scriveva Derrida “lo spettro è tutto fuorché incorporeo o semplice apparenza”. È un invisibile che prende corpo, che si nasconde dietro maschere e veli. Come negli scacchi dietro le figure di un re, di una regina o di un cavallo, con i loro movimenti rigidi, si nascondono posizioni e possibilità praticamente infinite. Fantasmi che covano nella scacchiera finché non trovano dei varchi per fuoriuscirne. Nella Difesa di Luzin di Nabokov è la collisione di due mondi: quello reale, della vita di Luzin, e quello immaginario della scacchiera. Mondi che finiscono per sfumare nella pazzia del protagonista, nella lucida coscienza di una variazione inarrestabile, che non può che portare a “quel genere di eternità che si parava, accogliente e inesorabile, davanti a lui”. E allora quel conflitto da cui tutto prende corpo, quel faccia a faccia che si popola di una moltitudine di figure e che si conclude solo apparentemente con l’ultima mossa, riprende di nuovo il suo corso. Come in una interminabile partita contro il tempo, in un’impossibile ricerca della mossa perfetta.

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