Il “Becco” di Trieste

di David Watkins

(illustrazione di Silvia Mengoni)

Quando gli strascichi del sabato ti costringevano a uscire di casa e andare verso l’Emeroteca – e si trattava non tanto di leggere o studiare, quanto piuttosto di trovare un verso, un buco, uno spiraglio qualunque per ritornare dentro la tua vita – e collezionando mentalmente le tue piccole vergogne – i piccoli disastri che affioravano dai ghirigori delle ore appena trascorse, che la domenica sono anche, inevitabilmente, le più lontane –, arrivavi a Piazza Attilio Hortis, e superavi la statua di Svevo, e dietro la sua accigliata compostezza, nel vezzo della sua improbabile postura, indovinavi qualcosa di simile a un’esitazione incipiente – il suo sguardo fisso, nella vuota perplessità che gli fa togliere il cappello, tenere stretto il libro – e ti chiedevi che cosa mai avesse dovuto vedere, quello scrittore di bronzo, per fermarsi così, per sempre, tra un pensiero e un sovrappensiero, incastonato in una titubanza immortale, quando così avanzando nella tua stanchezza t’interrogavi, ti capitava allora di trovare una risposta plausibile nella figura del Becco, che se ne stava lì, alla destra della statua, altrettanto fermo o quasi, a portare ostinatamente avanti il proprio lavoro, semplicemente beccando, a un ritmo sempre uguale, sigillato, appollaiato sotto la sua maschera di Becco, tutto sempre lì sotto, senza mettere a profitto il ricatto dello sguardo, senza nessun tentativo di pungolare una tua qualche ipotetica pietà, senza risarcire, con un’occhiata di rimando, l’umanità, la vanità con cui avresti potuto estrarre qualche spiccio dalla tasca e metterlo nel suo piattino, senza rimproverare, d’altra parte, la tua attuale noncuranza, il tuo tirare dritto verso l’ingresso dell’Emeroteca, noncuranza alla quale il Becco fa eco col solo linguaggio – invariato, e ancora più noncurante – del suo beccare, irrevocabilmente straniero a qualunque retorica pretesa di dialogo o di reciprocità, come chiedendo qualcosa a tutti e qualcosa a nessuno, senza chiedere niente, in un battere alla cieca, indifferente, soltanto questo beccare che persiste, e diviene, come dire, il metronomo delle tue angosce domenicali, continuando a scandire il silenzio dei tuoi timpani anche adesso, che sei entrato, e hai trovato un posto in cui sederti, e stancamente hai aperto un libro, e cominci a comprendere Svevo, la sua paralisi e la sua titubanza, il suo togliersi il cappello in eterno, là dove il battito del Becco ti si rivela, finalmente, per ciò che è: una gentile provocazione a cui tu, ancora una volta, non hai trovato il modo di rispondere.

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