Il male nel giardino di Höss. “Zona di interesse” di Jonathan Glazer

di Enrico Cattaruzza

Fotogramma del film tratto da Wikipedia

Una domenica come tante, in fila fuori da un cinema – il più giovane in fila, nonostante l’età non più verdissima – aspettando un film di cui nulla so se non il voto altissimo su almeno due siti specializzati, e il seguente commento occhiato in una recensione: “Zona di interesse, il film di Jonathan Glazer tratto da un libro di Martin Amis, parla della banalità del male”, il concetto reso celebre dal titolo di un saggio di Hannah Arendt. Quello che dalla lettura come sempre frettolosa pare interessante è che, rispetto alla cospicua filmografia sul tema, stavolta il punto di vista non sia di una vittima né di un eroe, ma di un nazista, e nemmeno di un roboante Hitler o di un romantico Hess, ma del comandante del campo di Auschwitz, Rudolf Höss. Un tecnico, diciamo, un po’ più in alto di Eichmann, ma siamo lì.

Assidue ed estreme frequentatrici dei cinema della città sono le signore in odore o fresche di pensione, sole, con amiche o accompagnate dai riluttanti mariti, e sono senz’altro anche le più ciarliere: in attesa di comprare i biglietti, giocoforza ne ascolto i commenti mentre escono dalla proiezione precedente, sconsigliando la visione dell’opera di Glazer a noi del turno successivo: “Mai visto un film così brutto”; “Guarda, per una roba del genere non merita andare al cinema”.

Almeno cinque o sei di loro sono concordi nel bocciare senza appello quello che hanno appena visto. Un’ora e tre quarti dopo, non potrei essere più discorde.

Anzi, durante il film già comincio mentalmente a scrivere una recensione senza pericolo di spoiler, perché non c’è assolutamente nulla da spoilerare. Nemmeno è una recensione, questa cosa che mi scappa in diretta come la pipì, ma un semplice commento, una nota a margine: non si può riassumere o compendiare l’opera di Glazer, che è priva peraltro di una trama precisa, e che nemmeno indugia a disegnare personaggi compiuti.

Potrei essere tentato di dire, con una punta di boria, che le signore non hanno capito il film. C’è sempre la tentazione di liquidare in questo modo chi non la pensa come noi, quasi come un politico di centro-sinistra nei confronti di chi vota Meloni.

Ma non è così. Loro il film lo hanno capito benissimo. E proprio per questo non è piaciuto.

Non è piaciuto vedere il giardino fiorito e ben curato dove vive la famiglia del comandante del campo, con tanto di piscina vista ciminiere, e l’idillio famigliare nell’agognata villetta adiacente il muro di Auschwitz, delimitata dal filo spinato, malcelato dai rampicanti.

Non è piaciuto sentire la suocera di Höss dire compiaciuta a Hedwig, la figlia: “Certo che sei caduta in piedi, cara mia” osservando i privilegi di un matrimonio con un SS di alto grado.

Non è piaciuto sentire la stessa Hedwig, altrettanto compiaciuta, ma forse con una punta di insicurezza o fastidio davanti ai pressanti impegni lavorativi del marito, salmodiare il refrain: “La vita di cui godiamo vale appieno il sacrificio”.

Soprattutto, non è piaciuto sentire.

Perché mentre il film nasconde le immagini del campo di concentramento, relegandoci all’esterno del muro, non ci risparmia nemmeno un suono di quello che senza tregua accade dentro il lager: la composizione di Mica Levi, che domina un’interminabile schermata nera al principio dell’opera, prosegue in una colonna sonora di ordini in tedesco, colpi di mitraglia, sferragliare di treni che si presume scarichino ebrei, ringhiare di cani: tutta una serie di evidenze invisibili che avvengono qui e oltre, al di là del filo spinato.

Glazer posiziona le camere dentro la villetta e nel giardino per osservare come un Grande Fratello la vita quotidiana della perfetta famigliola di un manager in carriera. Höss riceve plausi dai superiori per aver raggiunto “gli obiettivi di produzione”, vale a dire il target di ebrei da gasare, un output che gli vale la promozione, garantendo ulteriore benessere a moglie e figli.

La vita di cui godiamo vale appieno il sacrificio.

Si sente spesso dire che il nazismo è stato il male assoluto. D’altra parte, un male banale, commenta Arendt su Eichmann.

E se non fosse né assoluto né banale?, ci suggerisce Glazer.

La vettura del popolo, la Volkswagen, nasce nel 1937 per volere di Adolf Hitler, mentre negli stessi anni la Fiat fa affaroni sotto Mussolini.

Höss raggiunge gli obiettivi di produzione, per la propria ambizione, per il benessere dei suoi cari.

La vita di cui godiamo vale appieno il sacrificio.

Dire che un male è assoluto serve per allontanarlo da noi, concederci un’indulgenza plenaria per distinguerci totalmente dagli alieni scesi per caso sulla terra da un pianeta lontanissimo a portarci il nazismo: gente affatto diversa da noi, questi tedeschi del ’45, per nulla imparentati agli europei attuali. Con la loro navicella sono arrivati, e allo stesso modo sono scomparsi dopo qualche anno di guerra.

“Male assoluto” è una formula che possiamo sentire in bocca a un politico con la coscienza sporca, usata per distanziarsi da qualche malefatta che in realtà sente vicina. Ma è impossibile carpire il significato di parole vuote.

La filosofia, da Aristotele a Sant’Agostino a Kant, ha tentato di definire il male, eppure le approssimazioni più convincenti vengono dalla letteratura, da Dostoevskij a Camus, perché il male non è metafisico. Non è nemmeno banale: il nazismo non fu un fenomeno banale, né probabilmente lo stesso Eichmann era un uomo così vacuo.

Il male è complicato ed è storico, perché non tutti i genocidi vengono giudicati con lo stesso metro, ogni periodo porta con sé le proprie aggravanti e giustificazioni, né ogni delitto è ugualmente brutale. È sempre possibile fare di peggio, è sempre possibile indignarsi di meno, è sempre possibile vivere più vicino al muro di Auschwitz, in un giardino ancor più curato, con una piscina più bella di quella di Höss.

La vita di cui godiamo vale appieno il sacrificio.

Il lindo palcosenico di Piazza Unità a Trieste, tirato a lucido con ristoranti stellati, allietato dai canti di Natale a dicembre, frequentato dai pingui turisti ungheresi e tedeschi in primavera, sede del Comune diretto dall’abbiente borgomastro, non è turbato dall’esistenza del vicino Silos, l’ex magazzino portuale dove nella miseria e nel gelo invernale, senza un buco dove cagare, vivono o tentano di vivere più di duecento richiedenti asilo tra pakistani, afghani e nepalesi: i reduci della rotta balcanica.

La vita di cui godiamo vale appieno il sacrificio.

Le orecchie di chi governa sono a malapena scalfite dai bollettini di Gaza, perché non sentono i pianti e le grida, come non le sente chi vive nelle città moderne piantate a quaranta chilometri dal muro che delimita la Striscia. La scena del mondo non è organizzata da un Glazer che ti pianta nei timpani l’evidenza del massacro.

Forse è a questo che serve l’arte: a costringerti a sentire, legandoti su una sedia, apprestando la forma più adatta a valicare il muro dell’indifferenza. È quello che ha fatto Glazer: restando da questa parte di muro, ha evidenziato il muro.

Oltre alla costante esposizione alla violenza (…) a causare l’abbassamento della nostra sensibilità collabora anche quello che in psicologia viene definito errore fondamentale di attribuzione (…). Tra le varie teorie che hanno provato a spiegare questo fenomeno, che inevitabilmente ci porta a pensare che le persone sono quello che fanno e dunque si meritano quello che gli succede, la teoria del mondo giusto può aiutarci a capire perché qualcuno pensa ancora che le ingiustizie che colpiscono i più deboli siano, in qualche misura, meritate (…). La teoria del mondo giusto è un meccanismo di difesa attuato per allontanarsi emotivamente da eventi dolorosi, per raccontarci che a noi quella disgrazia non succederà mai. Questo tipo di pensiero parte dal presupposto universalizzante che il mondo (almeno nelle sue parti più “illuminate”) sia un posto equo, e che qualunque cosa capiti deve accadere perché, in qualche modo, uno se l’è andata a cercare.

Così scrive Diletta Coppi su Charta Sporca, in un brano che probabilmente spiega anche la scelta autoriale di Glazer: non c’è una singola scena di violenza nel film, non ci sono nemmeno i deboli, proprio per evitare il consueto pietismo verso vittime che finiscono inevitabilmente per essere considerate come nate tali, in una deriva calvinista di cui è permeato il cinema hollywodiano. Vittime perfette, martiri del bene, agnelli che mondano i peccati del mondo.

L’arte, quando funziona, scaccia la retorica con l’uso sapiente della forma.

Non sempre arte e cultura devono essere così urticanti come nel film di Glazer: anzi, a volte opere di elevata qualità riescono a intrattenerci con schemi più rassicuranti, portando conforto senza rinunciare alla maestria artistica. Quelle stesse signore uscite contrariate da “Zona di interesse” si saranno probabilmente attardate in estasi davanti ai titoli di coda di “Perfect days” di Wenders, rinfrancate dall’agrodolce, placida, umile routine di un signore giapponese di bell’aspetto e di buone letture, condite da condivisibilissimi gusti musicali; si saranno beate del riscatto da Pinocchio femminista di Bella Baxter, protagonista dello splendido “Povere creature” di Lanthimos.

Ma Glazer parla del male, senza ricorrere al fascino del documentario true crime onnipresente su Netflix, del male non come pianeta relegato in galassie lontane, non come monito attenuato da pompose fanfare, non come opposto del bene in un’eterna lotta che finirà in trionfo o disfatta. No: il male che non può trovare altra forma fuori da una fredda e cromatica scansione, il male di cui ci parla il film, è quello sottile e invisibile che attraversa la storia grande e piccola, prosperando nel silenzio e nell’omissione.

La vita di cui godiamo vale appieno il sacrificio.

Höss è quel nostro collega che ottiene una promozione per cui ci congratuliamo nonostante la consapevolezza dei sotterfugi e delle bassezze, delle leccate di culo e dei piccoli tradimenti che ne hanno determinato la fortuna. Quel collega non è una persona banale, non è nemmeno il male assoluto. Avrebbe potuto essere un nazista? Non lo sapremo mai.

“Volevo ricordare alla gente che si scandalizza ancora per queste cose che la nostra società ha assorbito tutto quello che c’era da assorbire dal nazismo, tanto è vero che i viaggi in Volkswagen, le vacanze e la vita come la facciamo noi adesso è quella che era stata programmata allora! E i nostri lager sono i terzi mondi lontani dagli occhi e lontano dal cuore… Perché, se vogliamo guardare, la nostra società è tutta nazista!”, così parlò Luca Abort dei Nerorgasmo, durante l’ultimo concerto della band, rivolto al pubblico che lo fischiava perché provocatoriamente vestito da SS (abitudine condivisa, quella dell’iconografia nazifascista, da altre band vicine e lontane come, tra le altre, Disciplinatha e Death in June).

Certo, il punk per definizione provoca, e il linguaggio di Glazer, sebbene il regista provenga comunque dai videoclip rock (suo è il video di “Karma police” dei Radiohead), non è punk, è cinematografico e autoriale, ma l’insinuazione, che progredisce terribile e insinuante in “Zona di interesse”, come un parassita che cresce sottopelle, è apparentata all’invettiva sputata da Abort.

È arduo recidere il filo che unisce il male nella storia, come fosse fondamenta di una struttura incrollabile, una continuità che nessuna legge può negare: per ogni Costituzione ci sarà un codice Rocco che perdura, per ogni Resistenza un’aministia per i crimini fascisti, per ogni ONU uno Stato canaglia che farà saltare il castello di carte, per ogni obiettivo di produzione raggiunto qualcuno che soccombe.

La vita di cui godiamo vale appieno il sacrificio?

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