Il terrorismo delle parole

di Stefano Tieri

Foto di Aidan Bartos su Unsplash

Distruzione, attentato, morte. Le recenti vicende di cronaca che coinvolgono Medio Oriente e parte dell’Africa (dall’Isis a Boko Haram – se volessimo dare loro un nome-etichetta, potremmo optare per jihadismo) ci arrivano tramite la mediazione di immagini, video, voci fuori campo che intendono glossare un reale già reso, in questo modo, cinematografico. Siamo lontani, eppure oltremodo vicini: il coinvolgimento psicologico è massimo, complice una scena che si sta contribuendo a costruire almeno dal 2001, con l’evento per eccellenza, il primo attacco al “cuore dell’Occidente” (non è certo un caso che si sia data questa definizione al centro economico del paese capitalistico per antonomasia, gli Stati Uniti d’America), a cui si è potuto assistere in contemporanea da ogni angolo del globo.

Abbiamo imparato a dare a tutto ciò un nome preciso: terrorismo. Perché è da lì che proviene il terrore, come diamo ormai per scontato. Un terrore totale, senza possibilità di scampo, che ci accompagna dalle rassegne stampa mattutine ai talk show serali, dove impettiti politicanti senza alcun effettivo potere pontificano sul metodo migliore per fronteggiare l’imminente pericolo.

Il problema è che, nei contesti divulgativi, vengono rimosse alcune cause (non certo le minori) di quel pericolo: la destabilizzazione politica a opera di U.S.A. ed Europa in Medio Oriente e Nordafrica nel recente passato; ma anche la colonizzazione dell’immaginario andato di pari passo con la globalizzazione dei mercati, che impone a culture a noi lontanissime usi e costumi occidentali, in nome della tanto proclamata ‘libertà’, di cui prontamente ci si dimentica sul piano della politica interna (in nome, stavolta, della ‘sicurezza’). La guerra (il terrore) si può esercitare nei modi più disparati, anche dal punto di vista culturale.

Ma cosa intendiamo, noi occidentali, quando parliamo di ‘terrorismo’? Qual è il passato (rimosso?) della parola? La sua storia politica, osserva Jacques Derrida in Filosofia del terrore, “deriva in larga parte dal terrore rivoluzionario francese, che fu esercitato in nome dello Stato che presuppone il monopolio legale della violenza”. Il significato di terrorismo, al di là delle categorie storiche, è “l’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine” (Treccani). Basterebbe considerare lo scarto tra “destabilizzare” e “restaurare” per rendersi conto di quanto il concetto possa assumere sfaccettature divergenti e antitetiche. Eppure, nella nostra quotidianità, la parola-chiave è come appiattita su un significato (seppur mobile), giungendo a sovrapporsi – alla bisogna – con al-Qaeda, con Isis o con qualsiasi altro gruppo politico che osi opporsi a noi. Verso lo stesso gruppo, poi, si possono avere, in differenti contesti storici, atteggiamenti antitetici. Prendiamo l’esempio dei talebani: eroi combattenti per la libertà, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel decennio 1979-1989; barbari terroristi e distruttori di civiltà, ora che gli occupanti sono – da più di un decennio – gli Stati Uniti d’America.

Questa reductio ad unum, che dal molteplice del concetto giunge all’unità nella sua applicazione (prima a livello politico-mediatico, poi nella percezione collettiva), è già terrore: è nella lingua che si inizia a costruire – istituire – il nemico, tramite un termine in grado di evocare la messa in discussione della nostra stessa sopravvivenza, al di là dell’effettivo pericolo a cui siamo, in fondo, quotidianamente esposti. Al tempo stesso, ad accrescere questo terrore, la presentazione dell’imminente scontro tra civiltà: mondo occidentale da una parte, islamico dall’altra. Come se fosse possibile parlare, da una parte come dall’altra, di unità, e non di pluralità frammentarie, spesso su posizioni conflittuali già al loro interno. Come se la riproposizione del conflitto, stavolta su scala planetaria, possa costituire una soluzione, e non invece l’ennesimo segmento di un processo (distruttivo) destinato a rimandare solamente il problema: perché, tornando a Derrida, “la repressione, in senso sia psicoanalitico sia politico (che sia quest’ultimo tramite la polizia, l’esercito o l’economia), finisce per produrre, riprodurre, rigenerare proprio quello che tenta di disarmare”.

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