“In gioco, nel reale”. Piccola farsa di teatro filosofico in quattro atti

di Andrea Muni

In noi si danno momenti d’eccesso, che mettono in gioco il fondamento stesso della nostra vita; è inevitabile che noi si giunga all’eccesso nel quale abbiamo la forza di mettere in gioco quel che ci fonda. Se negassimo tali momenti, disconosceremmo ciò che siamo. […] Il momento della filosofia prolunga il momento del lavoro e del divieto. […] Incapace com’ è di interrompere questo movimento, la filosofia si oppone allora alla trasgressione. Se, dal piano del lavoro e del divieto (che si accordano e si completano) la filosofia volesse davvero passare al piano della trasgressione, essa non sarebbe più ciò che è, ma la derisione di se stessa. La trasgressione, nei confronti del lavoro, ha l’aspetto di un gioco. Nel mondo del gioco la filosofia si dissolve in niente.
(Bataille, L’erotismo)

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Circo Barnum
Il reale non è per essere conosciuto, ma subìto, inflitto. Giocato. Nel reale, nel gioco, si entra senza accorgersene. Ma prima o poi bisogna accorgersi di esserci dentro, da sempre – e di non poterne mai uscire. Proprio come accade al povero fesso che Pascal si immagina come interlocutore della sua bizzarra scommessa. Il poveretto, dopo esser stato menato per il naso dalle probabilistiche elucubrazioni di Blaise, viene a un certo punto inchiodato da una frase tanto lapidaria quanto inattesa: “Sei già imbarcato!”. Una delle due scelte, delle due strade, è sbarrata, truccata, illusoria: non puoi ritirati, puoi solo giocare, scommettere. Devi.

Non potrò perciò che essere allusivo a proposito di ciò che accomuna il gioco e il reale, di questa esperienza in cui siamo, sono, siete, già imbarcati – anche ora. Per arrivare a sfiorarla dovremo illuderci, per un attimo, di essere fuori dal gioco e poi, a un certo punto, illuderci di entrarvi mentre non ne siamo mai usciti. Ma sarà tutta una finta eh, tranquilli, sia chiaro, solo uno stratagemma un po’ sciocchino per sentire più forte che significa “entrare” nel gioco, nel reale.

Conto insomma sulla vostra complicità, e spero che vorrete colludere con questa mia finzione, con questo passo immobile, questa porta senza stipiti; spero che accetterete di lasciarvi gabbare da questo brutto gioco di prestigio, e che applaudirete quando dal cilindro si leverà infine un Bianconiglio che – come la verità in gioco nel reale – non è per essere conosciuto.

Se deciderete di stare al gioco vi ricambierò con un’abbondante serie di “entrate”, di vie d’accesso, di modi di scivolare in questa curiosa dimensione che accomuna il gioco e il reale. Entrate, forre, burroni, che non si possono troppo spiegare, se non col fatto – con l’atto di fede – della vertigine che si prova cadendovi.

Per tirare fuori un coniglio dal cilindro, d’altronde, bisogna prima avercelo messo…

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Bet and win
Il gioco e il reale, per cedere un istante alle seriose seduzioni della filosofia, ci parlano dell’immanenza e della comunicazione degli esseri – umani e non. Unico piccolo neo: immanenza e comunicazione non sono momenti del conoscere, né fatti o cose che si possono descrivere (a meno di tradirle, s’intende).

Sono, come noi, pedine del non-sapere; bambini che giocano a mosca cieca agitando le mani in cerca di un corpo, mentre al di qua della benda le lame dei loro sguardi si protendono, come rami, fino a sfiorare il retro delle palpebre. Immanenza e comunicazione non possono essere spiegate; per non divenire ombre, concetti, devono piuttosto essere loro stesse messe in gioco, provate – e noi con loro.

E non era forse proprio questa la prova che tormentava il buon Pascal? Quella intorno alla nostra (in)esistenza? La buona vecchia timebomb solipsista che, una volta innescata, si spande in uno tsunami d’angoscia che ticchetta allegramente per i cieli fino a insidiare quella più autorevole di dio?

Un’angoscia, una scommessa e una vertigine che Blaise e la sua onestà intellettuale proprio non riuscivano a grattarsi via con la stessa arguta – ma stanca e iperfilosofica – piroetta agostiniana già sfruttata per togliersi di impaccio dal suo arcinemico Cartesio.

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Provare per credere
Sì, il gioco e il reale sono cose che vanno provate. Come si prova l’amore, l’esistenza di dio, la nostra, o – che so – l’insensatezza di un’etica fondata sull’utile, di un principio di piacere che è un dispiacere fin dal principio.

Troppi sensi per una parola. La prova. Provare emozioni, provare un crimine, provare le ostriche, un vestito. Provare a prendere, provare una parte. Ma la prova che ci interessa è quella che introduce nel gioco un elemento agonistico, lo stesso che ora corre tra me – che vi provoco e vi prendo in giro – e voi, che potete farmi o meno credito, ancora per qualche minuto, almeno finché non mi smaschererete, che io abbia davvero qualcosa da dirvi.

La prova nei giochi introduce il registro della vittoria e della sconfitta. La mano di Muzio Scevola, che canta vittoria sullo stesso fuoco sopportato dagli eretici e dalle streghe per il loro mondo infinito, o per il loro caprone preferito. Le ordalie antiche, medievali – e quelle moderne degli eroi e delle eroine di Sacher-Masoch. Strani giochi, certo, quelli che sottendono una prova. Simili al poker, in cui per vincere non è sempre necessario svelare le proprie carte – come nel caso di un bluff riuscito. Simili alle estasi delle sante, delle mistiche, che provano dio godendoselo.

La prova implica scontro e vittoria, preda e sconfitta. Ma – annota Baudelaire nei suoi Diari initimi – “e se ci fosse indifferente vincere o perdere?”. Agon è il gioco dei sofisti e dei buffoni, di quelli che sanno portare il duello della farsa e della parodia fino al primo sangue, e pure oltre; quelli che sanno rendere il gioco reale.

Ed eccoci caduti tra le braccia del gioco masochista, in cui vincere e perdere si confondo, in una vertiginosa maschera di sfida che, una volta gettata, non svela alcun volto, ma soltanto l’abisso di una partita senza inizio né fine. Lo specchio infinitamente rifratto, infranto, delle pedine.

Il colpo di dadi del fanciullo che gioca ai castelli di sabbia seduto sulla riva, sognato e risognato – da Eraclito a Nietzsche – come carne del reale. La sfida lanciata all’Essere dalla bocca che lo pronuncia, la stessa che ha spinto Bataille alla follia di dire che l’Essere, se proprio dobbiamo farcene qualcosa, potrebbe non essere altro che la messa in gioco dell’Essere stesso.

L’atto stesso di mettersi in gioco…

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Carnevale concertato: la Via Stellata dentro di me, la Via Morale sopra di me
È così che – in questa distrazione dell’Essere che porta il nostro nome – quando comunichiamo attraverso le nostre ferite, noi siamo in gioco. Siamo il gioco. Siamo nel reale. È così che, dopo aver già dovuto passare per le forche sadiane cui lo ha costretto Lacan, e per quelle nietzscheane in cui lo ha forzato Foucault, il fantoccio del povero Kant dovrà infine passare per un setaccio comico ancora più ingrato.

Come nel gioco di maschere e rovesciamenti che ha dato origine al Carnevale, il drago cinese di Königsberg dovrà ora svuotarsi della tormentosa Via Morale che tanto lo affascinava ed eccitava, dovrà ammirarla prendere il largo, trasudare dal suo mondo interiore per dipingersi infine nel firmamento delle costellazioni nevrotiche attorno a cui gravita oggi il disagio della nostra presunta civiltà. Geometrie logico-astrali, all’apparenza così impossibili da trasgredire, che ci trattengono nell’infelice illusione di poter mettere in pausa gioco a nostro piacimento, o in quella – mortifera – di potere a nostro gusto uscirne.

Come supplizio finale, il fantoccio di Kant dovrà assistere impotente anche alla perversione della sua Via Stellata; dovrà ammirarla piombare in un “di sotto”, in un corpo, nella terra nera. In quel Blu del cielo batailliano che, come un firmamento rovesciato e ctonio, si spalanca e lussureggia dentro e sotto il ventre dell’amante. Un mistero erotico i cui astri carnali raddoppiano la Via Lattea tracciata, nel buio del cimitero, dai lumini delle tombe.

Fiammelle supplenti, memorie dimenticate, frecce ferme che trattengono amore e morte in un vuoto eterno dove si tende e si flette – senza perdono né fine – l’arco di coloro che davvero hanno già smesso di giocare.

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