Ingranaggi

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Quest’articolo parla dell’avvilente situazione delle discipline umanistiche nel mondo universitario italiano secondo l’esperienza di una dottoranda in filosofia. Mi sono iscritta alla facoltà di Lettere e Filosofia nove anni fa, ma ora non potrei farlo più. Mentre perdevo il mio tempo a laurearmi qualcun altro perdeva il proprio tempo a cambiare il nome di dipartimenti e facoltà, a dividere, raggruppare, mescolare, riformare. Niente più facoltà, i nuovi dipartimenti sono creature ibride, dai nomi accattivanti, talvolta con una nota anglofila. Per chi detta legge l’università è un’azienda, “organismo economico composto di persone e di beni rivolti al raggiungimento di uno scopo determinato” (Treccani). Questo scopo è il lavoro: ben si conosce l’abitudine giornalistica di apostrofare il mondo degli adulti come ‘mondo del lavoro’. Invito a riflettere su come questo valore giovane, il ‘lavoro’ appunto, abbia preso con una certa facilità il posto di un altro valore ormai piuttosto vago e datato, quello di ‘libertà’.

Quando un interlocutore medio viene a conoscenza della mia formazione pensa ad un futuro di disoccupazione. Nella sua sana e candida appartenenza al nostro tempo non può tener conto della possibilità che ci sia qualcuno che inizi un percorso di studi mirando a qualcos’altro che non sia un posto fisso e una buona paga. Lo studio è finalizzato al soldo e ai più riesce difficile immaginare che ci possa essere stata una scala diversa di valori e che alcuni, accingendosi a continuare la propria formazione dopo la scuola superiore, continuino ad aderirvi in modo sincero. Nel ‘mondo del lavoro’ l’approccio dominante è quello quantitativo: se lavoro un’ora dovrei rendere uno, se lavoro otto ore rendere otto, undici ore rendere undici e così via. Tale approccio è stato applicato all’università con una certa disinvoltura. I famosi CFU, crediti formativi universitari, sono pensati come corrispondenti a una somma precisa di ore di lezione e di ore di studio necessarie per la preparazione di un esame secondo la proporzione di 1CFU:25h. Il ministero suppone dunque che tempo impiegato a lezione e sui libri e rendita dello studente (?) siano valori direttamente proporzionali. Ma lo studente sa bene che questo ragionamento è del tutto falso, un’ora di studio può valere zero, uno, dieci, cento… nulla come la capacità di comprensione e di elaborazione dipende dai più svariati fattori, è possibile conciliarla, ma mai determinarla con esattezza.

Stando così le cose ci si può immaginare quanto strenua debba essere la lotta ideologica fra accademici e istituzioni, fra chi dovrebbe mirare a salvaguardare la formazione dell’individuo e chi ciecamente pensa al suo utilizzo a fini economici in vista di quell’ideale di progresso e crescita economica che, incredibile a dirsi, continua ancora ad essere pubblicizzato dai media pur trattandosi ormai di un palese delirio storico. E invece nulla. Se per il ministero la logica è quella economica, all’interno dell’accademia la logica dominante è quella del potere. Non è l’unico valore che vi alberga, fortunatamente gli eretici rimangono numerosi, ma è senz’altro quello dominante e lo si intende denunciare in questa sede. Per chi vi insegna l’università è un feudo. La questione è parecchio diversa: quello a cui l’aspirante accademico punta non è tanto la paga da ordinario, ma il suo potere, un potere pratico e culturale al tempo stesso. I professori universitari si ribellano solo quando in gioco è la loro stessa cricca. Basti vedere le recenti proteste contro le cattedre Natta, cinquecento posti da professore ordinario a nomina diretta da parte di una commissione a sua volta decisa dal governo: lettere di protesta, manifestazioni, inni alla democrazia… Ma anche quando un’amministrazione comunale è preda della mafia subisce un commissariamento e perde ogni autonomia. Quella delle cattedre Natta una proposta anti-democratica che rischia di far dipendere il mondo culturale dal potere politico? Certo. Che induca a riflettere il fatto che sia stato l’unico tentato provvedimento degli ultimi anni che ha portato baroni e baronesse a una sincera quanto pressoché unanime protesta. Il nepotismo universitario e i concorsi truccati sono infatti una realtà sulla quale è ormai inutile discutere (gli interessati possono leggere qui e qui).

Si consideri inoltre che nelle accademie vi è senz’altro un pensiero dominante: non esito a dire che questo pensiero tende ad essere figlio del materialismo storico e dell’ideologia progressista. L’invisibile viene fatto dipendere dal visibile come se fosse un dato di fatto; i rapporti di causa ed effetto tendono a disporsi secondo una direzione che dà sempre priorità al materiale sull’immateriale. È solo la fame a fare le rivoluzioni, questo è il concetto di base. Con l’ingenua arroganza tipica di chi fa completamente parte di un secolo di verità e di luce dopo millenni di oscurantismo e ignoranza questo tipo di approccio ci viene consegnato come veritiero fin dalle elementari. Arrivati all’università le voci fuori dal coro sono mal tollerate, chi si sforza di vedere in un’altra epoca un altro modo di ragionare è tacciato di idealismo e chi tenta uno sguardo d’insieme che sappia alludere alla complessità del reale accusato di mancanza di chiarezza. Come si può pretendere che le università insorgano contro un sistema di valori nel quale quelli materiali sono al primo posto se sono le accademie stesse a contribuire alla formazione del pensiero comune in tal senso?

In tanti ci siamo trovati a imprecare contro una bibliografia da compilare o delle note a piè di pagina da aggiungere che magari finiscono per lasciarci solo un paio di righe di vero testo. Si impreca la prima, la seconda, la terza volta… poi ci si abitua, si fa così, il metodo scientifico lo esige, il fanatismo specialistico lo reclama. E diviene di un cattivo gusto naif lamentarsene. Le energie mentali di una generazione a compilare bibliografia, ingranaggi di una macchina acefala. Per chi la frequenta l’università è una schiavitù. L’analisi non può che andare a scapito della comprensione d’insieme, le energie non possono essere infinite. E allora mi sono trovata davanti professori associati che visitano Roma per la prima volta e non mettono naso fuori dalla sala conferenze a causa del caldo o ad un convegno a Modena dove a nessuno era venuto in mente di andare a visitare il duomo di Wiligelmo, capolavoro del romanico.

Azienda, feudo, schiavitù: un panorama desolante. Un professore a cui sono molto legata mi ha detto un giorno che, seppur all’università la situazione delle discipline umanistiche sia in effetti tragica, gli studenti continuano a chiedergli qualcos’altro con sincerità e costanza. Non è mia abitudine esaltare la gioventù per partito preso, ma credo che in quel caso avesse ragione. Ho visto durante gli anni universitari, e lo vedo tuttora, come molti di quanti si iscrivono a “Lettere e Filosofia” – perdonate l’anacronismo – chiedano molto di più all’accademia, qualcosa di non visibile e non quantificabile, una crescita intima (culturale, civile o spirituale che sia). Ma se la situazione è così nera, che cosa resta mai da fare a chi continua ad avere questa indefinibile spinta interna? Così scrive Calvino ne Le città invisibili: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” Questa secondo caso ci offre una piccola nota di speranza finale e questo giornale può essere un buon mezzo per tentare di concretizzarla.

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