Inniò | Voce, del singolo nella comunità

Una spirituale devozione al mistero di ciò che esiste è stile per virtù propria, come dimostra l’ammirabile linguaggio, oggi in via di estinzione, dei contadini.
Cristina Campo, Gli imperdonabili

Nel fatto che la piazza perugina di San Severo sia diventata “Piazza Raffaello” per uso comune e quotidiano, perché per secoli persone che nulla sapevano di arte (persone come chiunque, abitanti degli spazi pubblici cittadini) si sono tramandate che lì, in quella chiesa, Raffaello da giovane aveva dipinto qualcosa, si può trovare ancora uno stile per virtù propria, una voce che non smette viva di nominare il luogo. Il panettiere, l’operario o l’impiegata d’ufficio che, nella chiacchera frettolosa di ogni giorno, nominano la piazza non seguendo la toponomastica catastale ma, invece, riferendosi a una peculiarità del luogo che in realtà non sanno (magari neanche hanno mai visto l’affresco di Raffaello e tanto meno saprebbero distinguerne stilisticamente i tratti) ma che conoscono per trasmissione, sono l’evidenza di una tradizione viva e di un gesto di fede indubitabile. Essi portano testimonianza del fatto che i luoghi, prima di venire silenziati dalla burocrazia, sanno parlare da sé proprio perché costantemente nominati e rinominati dalle persone che li abitano. Un luogo, infatti, laddove mantenuto in costante pensamento e ripensamento (dunque in un incessante dire), è una determinazione materiale e fisica di qualcosa che non è terminato. C’è una relazione – definibile come paesaggio – che si crea tra il darsi di senso di un luogo nella singola persona che in quel momento lo sta nominando e, dall’altra parte, lo spirito atemporale di quel luogo e della comunità che lo abita: una vicinanza che contiene una distanza e da essa è contenuta.

Quanto detto finora non è diverso dal fenomeno dei gondolieri di Venezia che intonavano le ottave di Tasso in eco tra le calli (almeno così racconta Goethe in Viaggio in Italia) o i pastori appenninici che sapevano l’Inferno dantesco a memoria e lo recitavano tra loro nella solitudine dei pascoli. Non sono distanti neppure fiabe come quella di Re Laurino e del Rosengarten le quali, nate prima che qualcuno si prendesse la paternità autoriale di scriverle e fermarle (spesso una persona esterna alla comunità, uno studioso), sono inscindibile legame sia tra luogo (nella fiaba citata, le dolomiti sudtirolesi) e voce di comunità, sia tra quest’ultima e il racconto del singolo, ovvero ogni “roseto tra le montagne” che una madre mostra al figlio o un nonno alla nipote. C’è un senso e qualcosa che lo precede, il segno e la voce che in esso si manifesta. L’esempio più compiuto di questo forse sia ha modo di vederlo nei cimiteri dei piccoli paesi di montagna, osservando l’architettura delle lapidi e delle pietre tombali. I tratti formali che le caratterizzano, infatti, sono diversi da paese a paese o da valle a valle ma, nel contempo, sono poco distinguibili se il confronto viene fatto tra due tombe poste una in fianco all’altra: né il tratto dell’artigiano che l’ha creata, né il soggetto che vi è sepolto hanno quasi mai modo di emergere in maniera distinta, peculiare. L’identità che queste tombe testimoniano è quella di un tutt’uno inscindibile tra il singolo e la voce della comunità, in un’aderenza certa. Lo stesso discorso di può fare per quanto riguarda gli epitaffi: tratti personali che qualificano la persona morta sono un tutt’uno con formule che sono di tutti (“devota moglie” “padre di famiglia”).

Che sia una fiaba o il nome di un luogo, solitamente il racconto orale avviene o attraverso lingue condivise da una specifica comunità (i dialetti e gli italiani regionali nelle loro varianti) o mediante idioletti familiari (intendibili solo nel rapporto tra il bambino e l’adulto) che appartengono a un dire ancora più intimo, quasi nascosto. La musicalità e il sapere contenuto nei primi (i dialetti) non nega o si pone in alcun modo in antitesi ai secondi (gli idioletti intimi) ma anzi, laddove è ancora viva l’identità dell’individuo nella comunità, questi due modi del trasmettere si compenetrano, diventando l’uno manifestazione dell’altro. Eppure, può accadere che il singolo diventi dissociato rispetto alla voce condivisa di comunità, che il luogo venga abbandonato da chi lo ha abitato. Franco Brevini, in Poeti dialettali del Novecento, ha descritto bene come a partire dal secondo novecento sempre più la conoscenza trasmessa dei dialetti passi dall’essere trasmissione e lingua dei padri (della comunità e del discorso in piazza) a trasmissione e lingua materna e della madre (sussurrata in una trasmissione intima, familiare, privata). Dove cessa la comunità, dove il singolo non è più parte di quella indubitabile fede in una trasmissione, una voce rimane legame possibile solo come fiore intimo e privato, coltivabile con profondo amore nella stanza in cui si dorme ma non più nel campo, luogo in cui neppure sembra più possibile trapiantare nulla, nessun germoglio. «Con il campo che non è un mondo», scrive Mario Benedetti. Voce del luogo, conoscenza che è trasmissione, diviene possibile solo nelle mani dei figli che contengono l’espressività delle mani del padre e della madre. Quando anche questa oralità viene a perdersi, allora spesso chi mantiene l’ultimo fiore rimasto scrive, nel tentativo di fermare una voce (e con essa così tante vite) nel segno, per potervi poi tornare ripercorrendo, in una fede che non è più limpida ma chiede invece memoria che non sia nostalgia storica ma domanda volta a quell’inniò (nessun luogo) di cui scrive Pierluigi Cappello. Si crea la necessità di fermare qualcosa perché non si può più parlare. Così nella raccolta Mistieròi (Scheiwiller) di Andrea Zanzotto dove, se i padri sono scomparsi con i mestieri, voce viva permane accessibile nella sonorità femminea (non femminile) dei panni lavati. Ma troviamo anche questa poesia di Bianca Borsatti:

Te véc
de dessère
straca, desfata,
prima da tirate sòt,
tal lustre
dal canfin
in sòmp la giòthula
spoate
chi cotolòns
ch’i no finiva pi.

E intant,
squase par piatà
chèl bél-nu
che te scuvriva,
te te diséa
quatre réchie béle-s’ciéte,
cui vùes seràs,
pensan a l’induman.

La còtula,
al grumal,
al sial dut ingropà
e al bustin
còma un dènt de cian
i istigo,
le cialthe,
e può cussì,
cu ‘na maùta lisa
e ‘na còtula sòt
de flaneluta a fiors,
te te tirava apiède.

No contava
i sfiniménth
e le man rùspie:
te èra mèa.
Le ciamèse de dòta
I li è restade
In fònt al banc.

Ti vedo/ alla sera/ stanca, sfinita,/ prima di coricarti,/al lume/della lanterna/sulla mensola,/spogliarti/quelle vesti/che non fini-vano più.// E intanto,/quasi a nascondere/quel nudo/ che scoprivi,/recitavi fra te e te/quattro requiem veloci,/con gli occhi chiusi,/pensando all’indomani.//La gonna,/il grembiule,/lo scialle troppo annodato,/ e il bustino/candido di bucato,/gli elastici,/le calze,/e poi così,/con una maglietta lisa/ed una sottoveste/ di flanellina a fiori,/ti stendevi vicina.// Non contavano/ gli sfinimenti/ e le mani ruvide: eri mia./Le camicie del corredo /sono rimaste/in fondo al baule.

Resta da osservare, però, come potere un ritorno al luogo, alla sua voce, laddove da essa ci si è dissociati con la propria. Come potere tornare dal proprio fiore al campo? Pier Paolo Pasolini, avendo in mente il Fruli, scrive che il dramma di un mondo contadino è l’essere sempre interpretato e studiato da uno sguardo intellettuale, borghese ed esterno. Come dire, in parole diverse ed ampliando il discorso, che nel momento in cui un soggetto prende coscienza della propria comunità, del proprio luogo, già ne è diventato esterno, lo ha perduto. Guardando con attenzione la condizione sperimentata da Pasolini, però, essa si mostra in realtà come momento privilegiato per l’attuazione del ritorno di una voce individuale nella voce di comunità da cui si è separata, in una sorta di ricucitura interiore. Si può avere quello “stile per virtù propria” di cui parla Cristina Campo o si può cercare di attuare uno stile con volontà, con coscienza. A questo punto, niente sarà più tradizione o fede indubitabile ma neppure permanenza in una condizione dissociata. Si potrà una voce che, partendo dall’individuo come ente separato e singolo, saprà trascendere sé stessa e tornare a porgersi in amore con la voce di una comunità, ora però con coscienza e presenza. Questa possibilità, mi sembra, può essere nell’esperienza della poesia per chi la legge. Cristina Campo scrive che:

«un tempo il poeta era là per nominare le cose: come la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte. (…) Un parco ombroso, il verde specchio di un lago corso dai bei germani dorati, nel cuore della città, della tormenta di cemento armato. Come non pensare guardandolo: l’ultimo lago, l’ultimo parco ombroso? Chi oggi non è conscio di questo, non è poeta d’oggi.»

I versi di Borsatti riportati sopra, come già detto, non sono che un fermato di un sapere di voce, un segno lasciato perché lo si possa rivivificare, trovando nella parola scritta e nella lingua la vocalità che ne ha permesso la nascita. Questa vocalità però, come si diceva prima, non ha autore se non ogni singolo parlante che, ancora presente a un sapere trasmesso e a un’identità inscindibile tra individuo e comunità, nel suo paese o nel suo luogo l’ha praticata e messa in atto. Ripercorrere questi versi, allora, sarà avere presente che il proprio io non è l’identificazione con quanto di una tradizione è trasmesso, ma bensì la scelta di accettare per volontà, dicendo “lo voglio”, quella voce che è consegnata. Prossimità di un movimento ancora da sperimentare.

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