La borghesia sedotta. Pasolini e i 50 anni di “Teorema”

di Alessandro Mezzena Lona

Potremmo fare un gioco, tanto caro a chi ama categorizzare ogni aspetto della vita. Si tratterebbe di definire “Teorema” di Pier Paolo Pasolini con una o due parole al massimo. Da subito ci accorgeremmo, però, che non di un gioco si tratta, ma di un’operazione complessa, piena di contraddittorie illusioni. Perché il film, e il romanzo che il poeta e regista friulano ha dedicato alla medesima storia, richiedono una visione, una lettura molto attenta. Capace di non fermarsi alle apparenze.
Pasolini stesso, quando parlava di “Teorema”, alternava parole come codice, referto, parabola, manualetto laico a canone sospeso. E se il poeta Attilio Bertolucci si permetteva di smentirlo, elevando Il film a un “conte philosophique”, a tratti lirico in maniera straziante, ma pur sempre venato di un leggero senso dell’umorismo, uno storico del cinema come Gian Piero Brunetta nel suo saggio sul “Cinema italiano contemporaneo” legge in “Teorema” e “Porcile” tutto il malessere dell’autore “nei confronti della ‘famosa’ rivoluzione del ‘68”. E se Marco Antonio Bazzocchi, nel suo saggio “I burattini filosofi”, mette l’accento sul fatto che questa è l’unica opera doppia nella produzione pasoliniana, con una versione scritta e una visiva che si sovrappongono e si correggono a vicenda (tanto che l’autore stesso parla di una “natura anfibologica” in cui non sa se prevale la componente letteraria o quella filmica), Vincenzo Cerami si dice certo che il film e il libro portino per la prima volta in luce “una linea narrativa parallela a quella delle sue saghe popolari”.
Il semiologo francese Roland Barthes, ragionando su Sade, Pasolini e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, riconosceva a “Teorema” un ”linguaggio assai più pieno di grazia” nel costruire una potente allegoria della società borghese, rispetto a quello che è rimasto l’ultimo lavoro filmico del regista di Casarsa.
La genesi di “Teorema” era svelata da Pasolini stesso nella quarta di copertina del romanzo pubblicato nel 1968: “Per la verità, ‘Teorema’ – spiegava – era nato come pièce in versi, circa tre anni fa; poi si è tramutato in film e, contemporaneamente, nel racconto da cui il film è stato tratto e che dal film è stato corretto. Tutto questo fa sì che il modo migliore per leggere questo manualetto laico, a canone sospeso, su una irruzione religiosa nell’ordine di una famiglia milanese, sia quello di seguire i ‘fatti’, la ‘trama’, trattenendosi sulla pagina il meno possibile”.
“Teorema”, prodotto da Franco Rossellini e Manolo Bolognini per Aetos Film, con l’aiuto alla regia di Sergio Citti, venne girato dalla fine di marzo al 15 maggio del 1968 nei teatri di posa della stessa Aetos a Roma e in esterni a Milano, Sesto San Giovanni, cascina Torre Bianca e Copiano in provincia di Pavia, San Donato Milanese, San Giuliano Milanese, Sant’Angelo Lodigiano e valle dell’Etna. La villa della famiglia si può vedere ancora a Milano in via Palatino, zona San Siro, al numero 16.
Costruito con l’ampio uso della soggettiva libera indiretta (un’inquadratura che caratterizza il punto di vista di un personaggio, ma stabilisce una programmatica assenza di distinzione tra l’autore e il personaggio stesso, in un’antinarratività che definisce la “lingua di poesia” come forza centrifuga rispetto alla “chiusura di senso” narrativa), “ Teorema” venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il 5 settembre del 1968. In sala c’era uno spettatore d’eccezione: Jean Renoir. Il regista de “La grande illusione”, “Nanà”, “L’angelo del male”. Il figlio del pittore Pierre Auguste, che, secondo una definizione di Éric Rohmer, conteneva in sé tutto il cinema, commenterà: “A chaque image, à chaque plan, on sent le trouble d’un artist” (a ogni immagine, a ogni inquadratura, si sente il dolore di un artista).
“Teorema” vincerà il Premio Ocic, il secondo della carriera di Pasolini dopo quello assegnato a “Il Vangelo secondo Matteo”, la Navicella d’oro, la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile assegnata a Laura Betti. Alla giornalista Camilla Cederna, il regista spiegherà di avere “scelto la Betti perché nel suo fondo ha qualcosa dell’Apocalisse”.
Nonostante quest’accoglienza positiva da parte della giuria, e di una buona parte della critica, il 13 settembre del 1968 la mannaia della censura si abbatterà inesorabile su “Teorema”. La Procura di Roma ne disporrà il sequestro a causa della presunta “oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ispirava”. Il processo, in realtà, si metterà bene per Pasolini, per il produttore e per il film stesso che non verrà distrutto, secondo la sentenza pronunciata dal Tribunale di Venezia il 23 novembre perché “il fatto non costituisce reato”. E potrà proseguire la sua circolazione nei cinema. La Corte d’Appello, poi, confermerà la sentenza di primo grado.
“Lo sconvolgimento che ‘Teorema’ provoca – scriveranno i giudici, con onestà e capacità di interpretazione filmica – non è affatto di tipo sessuale, è essenzialmente ideologico e mistico. Trattandosi incontestabilmente di un’opera d’arte, ‘Teorema’ non può essere sospettato di oscenità”.
Continuerà, però, a manifestarsi in maniera aggressiva la contrarietà del Vaticano. Dal 14 settembre del 1968, l’Osservatore Romano proibirà esplicitamente la visione di “Teorema” alla comunità dei cattolici osservanti. E come se non bastasse, Papa Paolo VI metterà in guardia i fedeli contro “l’inammissibile film”, pur premiato dagli ambienti cattolici ed ecclesiastici dell’Ocic. Il problema è che la commissione giudicante veniva tacciata di eccessive simpatie per la teologia della liberazione, che, più tardi, verrà ferocemente osteggiata da don Luigi Giussani e dal movimento Comunione e Liberazione, dalla Prelatura della Santa Croce, dall’Opus Dei, da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Per la prima volta, con “Teorema”, Pasolini affronta al cinema la borghesia e la sua parabola d’involuzione. E lo fa dopo una serie di film dedicati al sottoproletariato, al mondo arcaico del mito. Basterebbe pensare che dal “Vangelo” lo separano solo quattro anni, da “Edipo re” appena uno, mentre la “Medea” con Maria Callas arriverà nel 1969, lo stesso anno di “Porcile”.
Eppure, “Teorema” non è del tutto scollegato dalla prima fase del lavoro cinematografico di Pasolini, da pellicole come “Accattone”, “Mamma Roma”, “La ricotta”. Che cosa rappresenta, infatti, la figura dell’Angiolino, un sorridente Ninetto Davoli? Lui, il messaggero che annuncia danzando l’arrivo e la partenza dell’ospite, il “folle di Dio” che riesce a stanare la serva Emilia dal suo rigido rispetto del protocollo, è una scheggia del mondo ancora per poco innocente delle borgate. Sparisce, infatti, quando sfuma l’ultima speranza di un reale cambiamento.
L’idea di raccontare la borghesia, comunque, non era una scelta del tutto originale. Se pensiamo che già nel 1961, Michelangelo Antonioni aveva messo a fuoco nel suo film “La notte”, capitolo centrale della trilogia esistenziale o dell’incomunicabilità, la crisi di una coppia. In cui si specchiavano la noia di Lidia (Jeanne Moreau) e Giovanni (Marcello Mastroianni), sospesi tra disamore, vuoti riti sociali, immaturità e snobismo, nell’ambiente dei nouveaux riches.
Ma, più che al cinema di Pasolini, quello di Antonioni si poteva accostare a certi romanzi del primo Alberto Moravia: “Gli indifferenti”, del 1929, e ancor di più ”La noia”, pubblicato nel 1960. Libro che, peraltro, lo stesso poeta di Casarsa aveva preso come modello di riferimento quando era intervenuto sulla rivista “Vie Nuove” il 16 marzo 1965, per sottolineare l’originalità della narrazione della “Notte”.


“Teorema” è, dunque, l’unica opera pasoliniana dal doppio volto. Perché è visiva e scritta al tempo stesso. Fa convivere cinema, letteratura, teatro e poesia. E non solo. Libro e film (di cui, tra l’altro, l’autore raccontava che era stato girato “praticamente senza una sceneggiatura”. Ipotesi in qualche modo avallata da Walter Siti e dagli altri curatori dei due Meridiani Mondadori sugli scritti di Pasolini “Per il cinema”. Dal momento che, tra le carte sono stati ritrovati in forma di sceneggiatura solo gli episodi della malattia di Odetta e della follia pittorica di Pietro) hanno diversi e difformi registri di racconto.
A caratterizzare il film sono la narrazione aprospettica e non lineare, visto che il focus del racconto muta in continuazione, i prolungati silenzi e gli interrogativi sul significato di santità nel mondo moderno. Il romanzo, invece, si nutre di lunghi monologhi, di commenti a margine della narrazione, di puntualizzazioni che regalano al testo, diceva Pasolini, “un leggero senso dell’umorismo, del distacco, della misura”. In più, inframezza al racconto un gruppo di poesie che mettono a fuoco i temi e la psicologia dei personaggi con precisione quasi entomologica.
In ogni caso, sembra impossibile scindere Teorema-film da Teorema-libro. Anche se il film non è l’adattamento cinematografico del romanzo, e il romanzo non è la sceneggiatura del film. I due lavori pasoliniani, che usano giocoforza linguaggi diversi, vivono infatti in una simbiosi quasi perfetta.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che “Teorema” ha preso forma in seguito alle accese polemiche con le avanguardie italiane degli anni ‘60. In particolare con gli scrittori del Gruppo ‘63, che secondo Pasolini risolvevano la ricerca estetica in pura forma. Come ricorda Sandro Bernardi nel saggio “Pasolini e l’uso dell’allegoria in Teorema”, “questa polemica fruttò a Pasolini una serie di critiche abbastanza severe, come se fosse stato un tradizionalista, un contenutista, mentre proprio ‘Teorema’ ci aiuta a comprendere meglio come per Pasolini una rivoluzione sul piano formale non potesse non corrispondere a una rivoluzione sul piano del contenuto e similmente a una spinta in avanti non potesse che corrispondere un ampio respiro o sguardo all’indietro, come se per lui non vi fosse avanguardia se non là dove si cercava di recuperare il passato, proprio secondo il dettato della poesia che fa recitare a Orson Welles ne ‘La ricotta’: Io sono una forza del passato / solo nella tradizione è il mio amore / vengo dalle ruderi, dalle chiese / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati sugli Appennini o le Prealpi / dove sono vissuti i miei fratelli”.
Teorema-romanzo, pubblicato nel marzo del 1968 (concepito come settima tragedia in versi, già nel 1965, della serie iniziata con “Orgia”) sarà accolto tra i finalisti del Premio Strega. Tanto che Pasolini rivolgerà agli amici con diritto di voto una scherzosa “richiesta di suffragio”. Salvo poi ritirarsi dalla competizione a causa delle manovre poco chiare di altri concorrenti.
In seguito, Pasolini tornerà sull’argomento. Per denunciare le ingerenze dell’industria culturale “in un campo che io considero, ancora, arcaicamente non industriale”. E concluderà, con amara preveggenza: “La borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai e i contadini. Attraverso il neocapitalismo la borghesia sta per coincidere con la storia del mondo”.
Tutti e due, film e libro, partono da un’asserzione. Che, ovviamente, contiene in sé pretese di esemplarità e di assolutezza, come ogni teorema: “Data una famiglia borghese tradizionale (padre, madre, figlio, figlia e domestica), se un elemento estraneo vi entra portando con sé la forza scandalosa del sacro, essa si distrugge. Ogni componente perde se stesso in maniera differente”.
Il film inizia in modo straniante. Prima dei titoli di testa, appare il critico letterario Cesari Garboli, nei panni di un giornalista, che interroga gli operai sul significato del gesto del loro padrone: sembra, infatti, che abbia donato loro la fabbrica. Le domande del cronista suonano più simili a spaesate asserzioni che a vere e proprie domande. E gli operai, da parte loro, tacciono o balbettano banali risposte. Non sono capaci di formulare un ragionamento compiuto, di spiegare un evento così anomalo, straordinario. Sono il simbolo della sconfitta della classe operaia.
Già nel 1958, Pasolini aveva scritto che “il neocapitalismo va assorbendo degli strati di proletari progrediti e riconquistando degli strati di borghesia progressista”. E dieci anni più tardi, in una conversazione con il critico e storico del cinema Sergio Arecco, si sarebbe dichiarato ormai “privo, praticamente e ideologicamente, di ogni speranza… Quindi niente sol dell’avvenire, niente mondo migliore”.
In “Teorema”, a scompaginare la vita di una ricca famiglia borghese è un misterioso ospite interpretato da Terence Stamp, l’attore inglese che allora aveva trent’anni. Veniva da esperienze non banali con registi del calibro di William Wyler, Joseph Losey, John Schlesinger, con il trentunenne debuttante Ken Loach, e sarebbe stato ingaggiato da Federico Fellini per l’episodio “Toby Dammit” di “Tre passi nel delirio”, ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe. Due anni più tardi, avrebbe interpretato il ruolo di Arthur Rimbaud in un film firmato dal poeta Nelo Risi: “Una stagione all’inferno”.
Del visitatore non si sa nulla. Si può dedurre, dalle dispense che sta sfogliando all’inizio del film, che sia iscritto alla facoltà di Ingegneria. Ma ad appassionarlo per davvero sono i versi del “maledetto” Rimbaud, che legge nell’edizione Feltrinelli delle “Opere” con la traduzione di Ivos Margoni, l’unica disponibile allora in Italia.
Il fascino del giovane uomo senza storia finisce per contagiare l’intera famiglia. Anche se la prima a provare un forte turbamento davanti al corpo dell’ospite, fasciato da quegli abiti bianchi che da sempre sono simbolo dei messaggeri del trascendente, è la governante Emilia (la scarmigliata, intensa Laura Betti). Mentre pulisce il giardino, non resiste alla tentazione di spazzare via dai calzoni dell’ospite la cenere caduta dalla sigaretta che sta fumando. E per farlo, avvicina la mano al sommo tabù del corpo maschile: gli organi genitali.
Da quel preciso istante, l’intera famiglia finirà per provare un turbamento fortissimo. Tutti, uno dopo l’altro, avranno un rapporto carnale con il messaggero venuto da un altrove mai svelato. E l’incontro ravvicinato cambierà il loro sguardo sulla realtà, ma non li salverà. Anzi, li renderà stranieri nel contesto sociale di cui fanno parte: quella borghesia fagocitata dai non valori del consumismo.
Odetta (interpretata da Anne Wiazemsky, allora moglie del regista francese Jean Luc Godard) perderà ogni contatto con la realtà rifugiandosi nella catatonia. Pietro (interpretato da Andrès José Cruz Soublette) cercherà rifugio nell’arte, ma non troverà il senso di quello che sta creando. Lucia (la splendida, Silvana Mangano, così perfetta da sembrare un essere non terrestre) passerà dall’acritica sottomissione alla vita borghese all’arrendersi a irrefrenabili pulsioni sessuali. Il padre, Paolo (Massimo Girotti, perfetto capitano d’azienda e modello di capofamiglia), cederà la fabbrica agli operai, si spoglierà dei costosi abiti alla Stazione di Milano, vagherà nudo alle pendici dell’Etna gridando il proprio deserto interiore. Il nulla che assomiglia al contesto sociale disumanizzato creato dal capitalismo. Vivendo, in questo finale apocalittico, “la crisi radicale dell’ovvio, del domestico”, come la definiva l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino.
Qualcuno ha visto nel deserto, nel vuoto di se stessi, dove si perde Paolo (lo stesso vuoto in cui ha abitato Lucia, fedele al suo ruolo di moglie, madre, angelo della casa), un ritorno simbolico al luogo in cui gli ebrei fecero proprio il significato del Dio unico. Ma Pasolini non intendeva concedere un’ascesi mistica al suo capofamiglia. Come è evidente, anche a una lettura assai superficiale, che l’ospite non è Gesù, l’agnello sacrificale, il buon pastore del Nuovo Testamento. Piuttosto, potrebbe ricordare il Cristo che sfascia il tempio profanato e caccia i mercanti avidi solo di guadagni. O essere, come scriveva lo stesso Pasolini parlando del suo “Teorema” sulla rivista “Quinzaine littéraire”, un “messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquistata a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”.
C’è solo un personaggio in “Teorema” che troverà un faticoso cammino verso la salvezza: Emilia, la domestica, l’unica non borghese della famiglia. La figlia di contadini venuta in città per servire i padroni.
Il ritorno alla campagna, la scelta di alimentarsi con miseri decotti di ortiche, la levitazione che le sarà concessa dopo aver rinunciato agli orpelli del mondo (davanti a una piccola folla di pezzenti che ricorda il “Quarto stato” dipinto nel 1901 da Giuseppe Pellizza da Volpedo), sono solo il preludio alla sua privata via crucis. Emilia, infatti, si farà seppellire là dove le ruspe preparano un nuovo formicaio di appartamenti alle porte di Milano. E dal fango che la ricopre farà sgorgare una sorgente d’acqua pura, generata dalle sue stesse lacrime. Segno di contraddizione in un ambiente degradato dall’ansia di nutrire la catena di montaggio dei consumi.
E l’ospite? Tornerà misteriosamente da dove è venuto. Portando con sé quell’aura di erotica sacralità, dove convivono la luce e le tenebre. Non a caso, il personaggio di Terence Stamp richiama alla memoria il ruolo del sacerdote, di chi officiava i riti nei culti antichi di Mitra, di Dioniso. Divinità doppie, ambigue, capaci di riassumere in sé lo spirito trascendente e quello immanente, il lato umano e bestiale. Mente e corpo, anima e carne.
Lo stesso poeta e regista, nel libro “Pier Paolo Pasolini, le regole di un’illusione. I film, il cinema” a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, metteva a fuoco la questione chiedendosi “se una famiglia borghese venisse visitata da un giovane dio, Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe?”. Senza negare che l’ospite potesse simboleggiare Lucifero, l’angelo caduto. Il ribelle sacro, seppur rinnegato, per eccellenza.
Secondo Walter Benjamin, gli antichi dei, traghettati nel mondo moderno, hanno provocato la nascita dell’allegoria. E James Hillman, lo psicoanalista statunitense cresciuto alla scuola di Carl Gustav Jung, nel “Saggio su Pan” sosteneva che la rimozione dell’empireo pagano a favore dell’unico Dio delle religioni monoteiste ha trasformato i vecchi dei in malattie dell’anima. Ecco, in “Teorema” l’ospite diventa l’epifania che annuncia la fine di un mondo. L’apocalisse prossima ventura che si riflette nell’urlo di Paolo, nel compulsivo degradarsi di Lucia, nella follia creativa di Pietro, nel distacco dalla realtà di Odetta.


Scrive Paolo Desogus nel suo libro “Laboratorio Pasolini”: “All’epoca della realizzazione del film, la sessualità per l’autore è uno degli ultimi luoghi di libertà espressiva in cui la vitalità del singolo non è ancora vincolata, regolamentata da forme di costrizione”.
“Teorema”, quindi, secondo Desogus anticiperebbe l’illusoria vitalità della Trilogia della vita (“Il Decameron” del 1971, “ I racconti di Canterbury” del 1972, “ Il fiore delle Mille e una notte” del 1974). In quegli anni Pasolini crede, infatti, che la sessualità sia il luogo da cui si può partire per costruire una forma di libertà non solo individuale, ma anche sociale. Perché trova nel corpo il punto di congiunzione con l’altro-da-sé. Film e libro dimostrano, al tempo stesso, come tale libertà sia però preclusa alla borghesia, classe sociale in costante ascesa culturale, politica, economica.
Più tardi, il 15 giugno del 1975, Pasolini firmerà l’Abiura della Trilogia della vita, e cinque mesi dopo verrà ammazzato all’Idroscalo di Ostia. Ma già in occasione del convegno “Erotismo, eversione, merce”, nel dicembre del 1973, spiegherà nel suo intervento intitolato ‘Tetis’ come stava cambiando la sua visione della sessualità: “Mi pento dell’influenza liberatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, infatti, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi”.
Dirà anche che “la censura che un tempo censurava un seno scoperto, ora è giunta a lasciar passare, appunto, il dettaglio di un sesso in primo piano; e la magistratura, che, un tempo condannava per una semplice illazione, oggi è costretta a rendere molto più elastica la nozione sacra del ‘comune senso del pudore’”. Concluderà mettendo in guardia non tanto dal Vaticano e dai fascisti, quanto da “una nuova ideologia edonista e completamente, anche se stupidamente, laica”, capace di trasformare l’eros in “fonte di oggetto e di consumo”.
Un anno dopo “Teorema”, nel 1969, Pasolini ritornerà nel film “Porcile”, composto nel 1966 in forma di testo teatrale, sul tema del sacro e dell’estremo visti come armi nelle mani di chi si vuole opporre alla società borghese. Lo farà raccontando la doppia storia di un giovane guerriero (Pierre Clémenti) che, con la sua banda nel 1500, sfida le convenzioni sociali arrivando a cibarsi del corpo umano, e quella di Julian (Jean Pierre Léaud), rampollo di una famiglia tedesca ricchissima e coinvolta nel massacro degli ebrei al tempo del nazismo, che si ribellerà al perbenismo dei genitori. Concedendosi una perversione innominabile: il congiungersi carnalmente con i maiali.
Nell’opera di Pasolini in generale, e in “Teorema” in particolare, la trasformazione del linguaggio ha un ruolo centrale. Con le poesie di “Transumanar e organizzar”, ma soprattutto con i silenzi, le parole spezzate nel film del 1968, il poeta e regista colse il manifestarsi di una mutazione che avrebbe cambiato l’italiano per sempre. Spersonalizzandolo, privandolo della forte componente letteraria che l’aveva fatto diventare codice comune di comunicazione, da poco prima dell’anno Mille (con i Placiti cassinesi in volgare), di un popolo capace di trovare l’unità nazionale solo nel 1861.
Simbolica, a questo proposito, è la scena che Pasolini inserisce all’inizio del film. Anticipando una tendenza che si farà sempre più evidente dagli anni ‘80 in poi: quella di usare parole oscure per segnare la distanza tra chi traccia un’iniziatica distanza, dall’alto del suo status sociale, tra sé e gli altri. Un’amica di Odetta si rivolge a lei in un inglese modaiolo, ansiosa di sapere un po’ di più sul conto dell’ospite: “Who’s that boy”. E lei risponde, con svagata indifferenza: “A boy”.
Forti, in “Teorema”, sono anche le suggestioni letterarie. Cinque scandiscono, infatti, l’evolversi della storia. Sono le “Opere” di Arthur Rimbaud (e un intellettuale che si divertiva a criticare Pasolini, con per nulla malcelata cattiveria, poi ampiamente ammessa, come Umberto Eco, nel formulare contro di lui l’accusa di superomismo romantico citava il poeta “maledetto” come possibile modello di riferimento); “L’anello di Re Salomone” di Konrad Lorenz, con tutto il fascino legato alla scoperta del comportamento animale; i “Racconti e novelle” di Lev Tolstoj da cui vengono letti brani de “La morte di Ivàn Il’ič” (e che Pasolini utilizza per realizzare una delle sequenze più eroticamente mistiche: quella dell’ospite che si fa carico del malstare del padre); un catalogo d’arte sugli anni del modernismo e del futurismo, con disegni realizzati dal pittore friulano Giuseppe Zigaina, ma che contiene anche opere di Francis Bacon. Inoltre, non bisogna dimenticare le citazioni dalla “Bibbia”, anche se il volume non viene esplicitamente inquadrato.
Da “Teorema” e “Porcile” in poi, l’analisi pasoliniana della borghesia diventerà sempre più radicale. Fino ad approdare al grande elenco delle perversioni umane di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, il film che travolgerà la critica e gli spettatori nel 1975 raccontando con allegorica forza la profanazione dell’uomo.
Ma, se la morte violenta non avesse fermato, di lì a poco, lo scrittore e regista, lui di sicuro sarebbe riuscito a far deflagrare le colpe della società italiana non solo dentro il libro più duro e coraggioso, “Petrolio”, rimasto incompleto. Ma anche nel visionario progetto cinematografico “Porno-Teo-Kolossal”, di cui restano solo le sinossi provvisorie.
Certo è che “Teorema” mantiene tuttora intatto il suo fascino eversivo. A partire dalla colonna sonora, firmata da uno dei maestri italiani della musica contemporanea: Ennio Morricone. Perché può contare sulla severa bellezza del ‘Requiem’ di Mozart, nell’esecuzione dell’Academic Russian Choir e dell’Orchestra Sinfonica di Mosca. Ma anche sulla forza suadente di “Tears of Dolphins”, composta dal trombettista jazz statunitense Ted Curson. Oltre a evidenti reminiscenze dodecafoniche.
Nel 2013, la musicista di Milwaukee Alisa Rodriguez, conosciuta come Apollo Vermouth, ha dedicato un brano dell’album ambient “Sacred flowers” a “Teorema” di Pasolini. Costruendo il videoclip attorno alle scene più importanti del film. Con le sue sequenze di schegge sonore, che mutano impercettibilmente, ha riportato alla memoria la lezione di seminali compositori del ‘900 come Erik Satie. Ma anche di chi ha fatto della musica concreta, del minimalismo, un laboratorio esplosivo di sperimentazioni: Terry Riley, Philip Glass, Pierre Henry, Brian Eno.

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