“L’anima buona di Sezuan”: Berthold Brecht, Giorgio Strehler e Monica Guerritore sanno parlare al pubblico del XXI secolo?

di Eleonora Zeper

“Io dico invece chiaramente: non sono un artista. Sono uno che fa il mestiere dell’interprete e che ha ‘anche’ a che fare con l’arte, che interpreta non solo col mestiere, ma anche con l’intuizione e la sensibilità, il vecchio generico cuore, ma sempre nei suoi limiti. Che scrive sulle parole degli altri. Come sono bravo io a interpretare quello che altri hanno già detto, come suono bene, meglio di altri, le musiche che altri hanno scritto! Sono bravissimo, insostituibile forse, ma Il giardino dei ciliegi, l’ha scritto nel 1903 Anton Pavlovic Čechov, non io. Io non saprò mai scrivere neanche una riga del Giardino. Io so però leggerlo bene. Forse benissimo. Tento di leggerlo con gli altri, di aiutarli a leggere giusto. Ecco tutto.”

Così scrive Giorgio Strehler al critico teatrale Roberto de Monticelli nel 1974, spiegando in poche e consapevoli righe il suo lavoro di regista. In quell’anno aveva messo in scena, per la seconda volta nella sua carriera, Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov. Una giovanissima Monica Guerritore recitava allora nel ruolo di Anja. Oggi, a più di quarant’anni di distanza la Guerritore omaggia il grande regista riprendendo la messa in scena di Strehler de L’anima buona di Sezuan di Berthold Brecht, in scena al Teatro Orazio Bobbio di Trieste dal 10 al 15 gennaio 2020.

Il testo è stato scritto fra il 1938 e il 1940, durante l’esilio dell’autore, la regia di Strehler risale invece al 1981. Nella provincia cinese del Sezuan (deformazione della reale Sichuan), arrivano tre dèi alla ricerca di un’anima buona che li possa ospitare per la notte. Nessuno offre loro aiuto tranne la prostituta Shen Te; i tre dèi le donano allora mille dollari d’argento per ricompensarla della sua bontà e le augurano di essere buona e felice. L’intero testo è volto a constatare l’impossibilità di questo augurio: bontà e generosità sono inconciliabili con felicità e interessi personali.

Shen Te apre quindi una piccola tabaccheria e, anima bella, inizia a essere tormentata da approfittatori e parassiti, tanto da doversi inventare un cugino cattivo di nome Shui Ta per poter difendere i propri interessi. Shen Te inizia dunque a travestirsi da Shui Ta per non soccombere ai parassiti. Quando Shen Te si innamora dell’aviatore fallito Yang Sun, la vicenda si complica fino a giungere al tragico finale. Anche Yang Sun, infatti, è interessato solo al denaro e l’unico personaggio portatore di valori positivi, come spesso accade in Brecht, pare essere la figura della protagonista femminile. “Chi è senza speranze deve poter volare!” esclama Shen Te, dopo aver conosciuto il suo aviatore, ma Yang Sun non sarà diverso da tutti gli altri, non rinuncerà a sfruttare la bontà di Shen Te per fini egoistici. L’atmosfera è quella cupa e senza speranze, tipica del tardo teatro brechtiano; si afferma la legge del più forte, i rapporti fra gli uomini dipendono unicamente dal denaro, homo homini lupus insomma: in un mondo così l’amore è una debolezza imperdonabile e perniciosa che perfino gli dèi, insensibili infine alle vicende umane, condannano.

Il teatro epico brechtiano, didattico e funzionale alla presa di coscienza di problemi politici e sociali, è stato oggetto di studio e interesse da parte di Giorgio Strehler; il regista ha messo infatti in scena alcuni dei testi maggiori di Brecht e ha identificato tale autore come uno dei caposaldi della sua ricerca teatrale, come il punto di arrivo di quella parabola dell’egemonia borghese, che, nella storia del teatro, inizierebbe con Carlo Goldoni e finirebbe appunto con Berthold Brecht. Per entrambi gli autori l’uomo politico è, nelle parole del grande regista, misura di tutte le cose.

Nello spettacolo in scena al Bobbio, vengono seguiti i principali dettami del teatro epico brechtiano; ogni scena è un quadro a sé, volto a prendere in esame uno o più problemi di natura morale e l’immedesimazione da parte del pubblico è resa impossibile da una recitazione fortemente straniata di una bravissima Monica Guerritore e di tutta la compagnia: si punta a suscitare negli spettatori una riflessione critica e razionale. Le luci di Pietro Sperduti, i costumi di Valter Azzini e l’allestimento di Andrea Duilio Serbera raggiungono tale scopo. Lo spettacolo della Guerritore è un degno omaggio a uno dei più grandi maestri del teatro del Novecento.

Resta da capire però che cosa può essere oggi per noi Brecht e il teatro epico brechtiano, un teatro che si presenta come motore della lotta di classe, un teatro dichiaratamente marxista e teso a educare il pubblico a tale ideologia, un teatro che scuote, porta a riflettere sulla “struttura” e bolla, pur con doloroso rimpianto, ogni altro valore come dannoso. Certo è inattuale parlare di lotta di classe e credo ci sia maggior consapevolezza del valore storico e non assoluto della dottrina marxista.

Resta da capire anche quanto poteva parlare al pubblico di Strehler nel 1981 un testo del genere, in anni in cui, usando le parole del Pasolini degli Scritti Corsari, era già avvenuta la borghesizzazione del popolo e la conseguente omologazione culturale del “nuovo fascismo” dei consumi. Strehler si sbagliava forse a vedere in Brecht il punto d’arrivo dell’egemonia borghese; in un’epoca come la nostra, infatti, in cui, per citare il Principe di Salina del Gattopardo, “sciacalli” e “iene” rimangono al potere, forse un testo come quello di Brecht, pur nei suoi limiti storici e ideologici, può dirci ancora molto.

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