Macchine e fughe impossibili. Proposte di lettura sulla produzione culturale

di Piero Rosso

labirinto

È impossibile esaurire la discussione sulle macchine nel breve spazio di un articolo; possiamo, però, farci alcune domande e proporre alcune letture: pochi lampi veloci che non tengono conto delle origini della questione e illuminano forse ben poco, ma permettono pur sempre di muovere i primi passi e lasciarsi alle spalle l’indecisione iniziale nell’affrontare l’argomento.

La macchina è, prima di tutto, un modello utile per descrivere il nostro modo di fare esperienza del presente. Negli anni ’70 Furio Jesi ha dedicato molto tempo allo studio di un modello di “macchina mitologica” che rappresentasse con efficacia la nostra produzione culturale. Egli vede nella macchina una caratteristica tipica dell’era moderna, un sistema di produzione di significati storicamente determinato, capace di produrre effetti di realtà a partire da un vuoto, cioè da un rimando a qualcosa che sembra autentico, ma a cui non è consentito l’accesso. Ciò che ne risulta, secondo il modello jesiano, è una rielaborazione del presente in funzione di una serie infinita di residui culturali, che non vengono utilizzati per fare esperienza del reale bensì per plasmarlo: il mito, risultato di questo processo di produzione, è sempre tecnicizzato, cioè rielaborato per favorire l’esercizio del potere. Le parole quotidiane divengono così parole d’ordine.

Se il funzionamento della macchina è votato al mantenimento dello status quo, se punta a porsi al centro del disordine dell’esistenza per organizzarlo in un sistema coerente, non si dimentichi che essa è anche capace di non tradire la sua apparenza neutrale. Una macchina appare, allora, come qualcosa che funziona perché riempie il linguaggio di formule retoriche “che paiono chiare ma che non richiedono di essere capite, che anzi sembrano chiare proprio perché non devono essere capite”, fa circolare un segreto a cui solo gli adepti possono accedere.

In questo senso, una macchina non si vede: si parla – concetti come Patria, Identità e Cultura nascono da questa produzione. Roland Barthes traccia in Miti d’oggi (1957) un ritratto degli status symbol quotidiani della Francia moderna, in cui “mangiare la bistecca al sangue rappresenta dunque una natura e insieme una morale”, sostenendo così la quotidianità della mitologia. Jesi, dal canto suo, in Il tempo della festa, L’accusa del sangue e Cultura di destra ricorda che esistono modi e narrazioni che rivelano il lato tragico della produzione di significati.

Qui si vuole aggiungere un po’ di materiale di lettura, consigliando qualche testo che lavora, anche inconsciamente, intorno ai cardini della nostra cultura. In Riflession fatta. Autobiografia intellettuale (1955) Paul Ricœur sembra non distinguere tra lavoro biografico e ricerca teorica – qui il senso dell’aggettivo “intellettuale”, che suona come un’avvertenza metodologica. Ricœur sostiene un’identità della scrittura autobiografica che lasci spazio all’avvento dell’altro: non ci sarebbe distinzione tra la ricostruzione dell’io fatta da sé e quella prodotta da un altro biografo. È una posizione, questa, in netto contrasto con la macchina biografica che privilegia l’io e in particolare l’io narrante; lo stesso capovolgimento si ritrova ne La versione di Barney di Mordecai Richler (1997), capace di mettere in crisi questa gerarchia. Similmente, ma nel contesto italiano, la raccolta di racconti Woobinda di Aldo Nove (1996) dipinge una generazione distrutta e resa impotente dal linguaggio televisivo: “Bisogna cambiare la situazione politica. Fare qualcosa per questo mondo. Lo pensavo sempre, da bambino. Oggi, ritengo ch”. Narratori che durano il tempo di uno zapping.

Si può allora considerare la posizione privilegiata dell’io narrante come effetto di una macchina della memoria molto efficace, che agisce soprattutto sulle narrazioni storiografiche che si avvalgono di fonti autobiografiche. Nel caso dell’Olocausto, Georges Didi-Huberman in Immagini malgrado tutto (2005) prende in analisi una forma particolare di negazionismo, sostenuto da alcune vittime dei campi che, nel tentativo di proteggere il ricordo di quell’esperienza come qualcosa di irrappresentabile, ne fanno un oggetto di venerazione – una produzione di negazionismo intorno a un vuoto che ricorda un po’ la definizione di macchina data da Jesi.

La produzione di valori, però, risalta in maniera ancora più palese quando il lavoro della memoria si relaziona visibilmente con la fondazione dei miti nazionali. Mario Isneghi fa chiarezza, in Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato (2007), sul perché “il meccanismo generatore della coscienza nazionale [sia] la rammemorazione” e sul “conflitto delle memorie” che vengono selezionate per gli effetti di realtà che producono, piuttosto che per i loro contenuti: se “anche quando l’esito è funesto e l’eroe muore, la segnatura del territorio nazionale avanza”, quella memoria viene mantenuta e celebrata; in caso contrario essa degrada e pian piano sparisce.

Questi pochi suggerimenti non costituiscono soluzioni immediate per sanare le narrazioni fondative della nostra cultura – lo urlava pure Carmelo Bene da Maurizio Costanzo, in una della perle semiserie del trash televisivo italiano: “non si scappa dalla macchina!” – ma rappresentano delle narrazioni alternative, con tutta la modestia del caso, per ridimensionarne gli effetti.

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