Mauro Covacich al Rossetti. Un inedito Svevo tra straniamento e tradizione

di Sara Nocent

© Simone Di Luca

Un personaggio scorbutico: così lo definirono Quarantotti Gambini, Saba e Bobi Bazlen, il critico che suggerì a Montale la lettura de “La coscienza di Zeno”. Lo stesso poeta ligure, quando incontrò l’autore alla Scala di Milano, fu sorpreso di trovarsi di fronte in realtà un uomo d’affari interessato prima di tutto a sapere se nella famiglia di Montale ci fosse stato qualcuno impegnato nel commercio di acquaragia, un potenziale fornitore dell’azienda di vernici del suocero.
Italo Svevo viene introdotto in questa maniera inedita all’inizio della lezione che un altro scrittore, Mauro Covacich, ha tenuto al Rossetti in più repliche tra il 13 e il 25 ottobre. Tuttavia, noi del pubblico abbiamo potuto ricollegare ben presto questa testimonianza particolare a una sorta di reazione che l’organismo della letteratura italiana, abituato a una certa formazione e alla frequentazione di centri come Roma e Firenze, presentò nei confronti di un corpo estraneo, di un impiegato che si dedicò alla scrittura in una città la cui identità restava periferica, ibrida, italiana e sveva appunto. L’estraneità racchiusa nel nom de plume che Aron Hector Schmitz scelse per sè non è che una delle tante che, statificandosi, costituiscono il profilo di questo particolare scrittore.
Covacich ha scelto tre parole chiave per orientarsi nella sua lezione: città, coscienza, lingua. Le ha scritte su una lavagna improvvisata sul palco accanto alla scrivania, dando la sensazione a noi in sala di essere tornati sui banchi di scuola. Tuttavia, abbiamo ben presto capito che non si trattava di una lezione ordinaria. Le tre parole, estenuate da decenni di interpretazioni scolastiche errate, semplicistiche o addirittura nazionaliste, sono state spogliate di ogni retorica e restituite nell’originaria problematicità che hanno nel contesto della biografia e della produzione di Svevo.
La città è Trieste, zona di intersezione più che di confine. Luogo aperto alle influenze culturali e letterarie di quell’Europa che Svevo ebbe modo di conoscere ancora prima di cominciare a viaggiare in Italia dopo i sessant’anni. Città che pone da sempre il problema di una sua ipotetica identità, di una triestinità variamente interpretata come spirito strano e inquieto del luogo (basti pensare a una famosa poesia di Saba) o come peculiarità etnica, in un certo senso deformativa di una altrettanto fantomatica italianità. Niente di tutto ciò può tornarci utile nella lettura di Svevo, a meno che non si cominci a intendere quella “triestinità” in rapporto a un contesto storico-linguistico ben definito. Nella seconda metà dell’Ottocento Italo Svevo aveva infatti due lingue a disposizione per le sue opere: il tedesco e il triestino. Scelse tuttavia di scrivere in italiano (male, rispetto a come avrebbe potuto fare in tedesco, per citare ancora Saba), imparato come una seconda lingua. Ed è in questa scelta – linguistica, non identitaria – che si colloca l’estraneità esperita da Svevo.
J.M. Coetzee è stato il primo a notare l’assonanza tra Zeno e xenos, “straniero” in greco, aggiungendo che ne “La coscienza di Zeno” ci sono verità triestine che non sono emerse alla superficie della scrittura in italiano. Coetzee, da scrittore sudafricano di origini boere che parla l’afrikaans, può capire quel senso di estraneità, di scomodità nei confronti di una lingua egemone, non propria, come l’inglese, in cui James Joyce riconobbe di avere quello che per l’ordinamento romano era il diritto d’incolato, ovvero la possibilità accordata a uno straniero di stabilire il proprio domicilio lontano dalla terra d’origine. Veniamo quindi a conoscenza di un non-detto, di una seconda opera possibile al di sotto dell’intimità e della sincerità promesse dalla “coscienza” e dall’espediente letterario del diario del paziente, tradito (e tradotto, se lasciamo che le assonanze continuino a guidarci) dallo psicanalista.
Svevo abita quindi la lingua con imbarazzo, con non meno inettitudine rispetto ai suoi personaggi. Ce lo possiamo immaginare mentre si aggira quasi scontroso nella cattedrale della letteratura italiana, in questa secolare istituzione, lui che sembra uno di quegli impiegati dei romanzi di Kafka o Dostoevskij che finalmente ha preso parola e ha rivendicato il suo diritto di dire qualcosa. Tuttavia, l’opera di Svevo non è rivoluzionaria come può essere definita quella di Joyce, bensì si situa nella tradizione letteraria: ne “La coscienza di Zeno” c’è ancora l’espediente donchisciottesco e manzoniano del ritrovamento e della consegna al lettore di un manoscritto, per cui il soggetto non dà voce al proprio inconscio attraverso un liberatorio monologo interiore.
Verso la fine della lezione Covacich ha citato Lacan dicendo che l’inconscio è il discorso dell’altro, per poi collegarlo a una frase di Coetzee per cui è la scrittura stessa a rivelare o a costruire ciò che vuole o voleva dire l’autore. Veniamo quindi esposti a un’alterità nuova, non piú situata nel rapporto tra i pensieri in dialetto e la scrittura in lingua nazionale (sulla validità di questa dicotomia si potrebbe comunque discutere, dato che buona parte degli appunti di Svevo sono in italiano) bensì, a un livello più profondo, tra l’inconscio e la parola scritta. Siamo di fronte quindi a un’estraneità comune a tutti gli scrittori e le scrittrici: al di sotto di quelle “verità triestine” che richiedono un’altra lingua rispetto a quella del romanzo per essere dette, ci sono altre verità per cui nessuna parola è adatta. È su questo silenzio, questa impossibilità di raccontare che si gioca l’opera. “Si gioca”, appunto, perché non tutta la creazione del testo, al contrario di quanto siamo abituati a credere dal Romanticismo in poi, dipende esclusivamente dall’immaginazione originale dell’autore: ad un certo punto è l’opera stessa, o meglio la scrittura, a scriversi, come ci suggerisce Coetzee.
Covacich, salutandoci con quell’ultima citazione dello scrittore sudafricano riportata sulla lavagna, ci lascia quindi una domanda implicita, vertiginosa, nella mente: chi parla? Chi parla, per esempio, ne “La coscienza di Zeno”, se l’inconscio e la scrittura pongono una doppia alterità? Chi parla, lo scrittore?
Alla fine capiamo che non è stata una lezione dedicata esclusivamente a Svevo, ma in senso più ampio alla possibilità e al senso della letteratura, della scrittura.

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