#MORTIVERSARIOBATAILLE. La filosofia “impossibile” di GB

di Sandro Pellarin

“Georges Bataille – La societé desarmée”, di S. Pellarin, libro d’artista: tecnica mista, 2013, particolare

Il confronto con l’opera di Bataille genera inevitabilmente la domanda sulla sua possibile collocazione nel campo di ciò che viene definito come pensiero filosofico. La difficoltà nel dare risposta a tale interrogativo risiede nel fatto che proprio la trasgressione dei confini tra i generi e le discipline è uno degli aspetti che contraddistinguono il suo lavoro intellettuale e rende la sua scrittura come incollocabile. Tuttavia è proprio in questa operazione trasgressiva che possiamo leggere il manifestarsi di un’esigenza profondamente filosofica cui Bataille è rimasto fedele senza cedimenti durante tutto il suo percorso intellettuale.

Tra Nietzsche e Hegel

Per affrontare il rapporto tra Bataille e la filosofia è necessario tener presente, innanzitutto, che la sua non è una formazione prettamente filosofica: egli conduce i suoi studi, infatti, all’Ècole de Chartes, una prestigiosa istituzione volta alla formazione degli archivisti e dei bibliotecari, professione che, in effetti, svolgerà per tutta la vita. Il suo rapporto con la filosofia avviene, dall’inizio alla fine, al di fuori dei canali accademici ed è caratterizzato dall’intenso confronto con due pensatori che si configurano come veri e propri personaggi concettuali ai quali assegna il ruolo di rappresentare due poli d’attrazione opposti, ma entrambi imprescindibili: Nietzsche da una parte e Hegel dall’altra.

Bataille viene introdotto alla lettura di Nietzsche verso la prima metà degli anni venti dal pensatore esule russo Lev Šestov. Il rapporto che si instaura con il filosofo dell’annuncio della morte di Dio è un rapporto che si configura sotto il segno di un’esperienza di identificazione, tanto da portarlo ad affermare ne La sovranità “io sono il solo a presentarmi non come un glossatore di Nietzsche, ma come identico a lui”.

Dall’altra parte, il confronto con Hegel si configura come un’operazione di appropriazione delle categorie del sistema hegeliano, al fine di insinuarsi in esso e farlo esplodere dall’interno. Si tratta di un confronto che, iniziato nel 1932 con la pubblicazione di Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana (un articolo firmato con Raymond Queneau, ma in realtà scritto dal solo Bataille) riemerge con continuità nei suoi scritti, per giungere fino agli importanti saggi degli anni cinquanta Hegel, la morte e il sacrificio e Hegel, l’uomo e la storia. È tuttavia decisiva, per la lettura che Bataille darà di Hegel, la partecipazione, a metà degli anni trenta, al seminario sulla Fenomenologia dello Spirito tenuto da Alexandre Kojève, un altro intellettuale di origine russa in fuga dal bolscevismo. Si tratta di un seminario destinato a lasciare un’impronta indelebile sulla ricezione del pensiero hegeliano all’interno della cultura francese dei decenni successivi, coinvolgendo, oltre a Bataille, figure intellettuali di primissimo piano come Merleau-Ponty, Lacan, Aron, Caillois, Leiris, Corbin e Queneau.

Un labirinto senza uscita 

Aggirarsi nei meandri della vasta e labirintica opera di Bataille ci mette di fronte al progressivo emergere della consapevolezza che il labirinto in cui ci stiamo inoltrando esclude la possibilità di qualsiasi via di uscita. È questo il risultato dell’aver assunto su di sé, sperimentandolo fino alle estreme conseguenze, tutto il peso, e insieme il sollievo, dell’annuncio nietzscheano della morte di Dio. Perché “Nietzsche «scrisse col sangue»: chi ne fa la critica o piuttosto lo prova può farlo solo sanguinando a sua volta”, vivendo senza sconti la condizione di una totale assenza di trascendenza. Dove, per trascendenza, va qui intesa l’idea di una dimensione altra cui si possa affidare il compito di dare senso al nostro essere in questo mondo. Precisazione che si impone come necessaria, visto che il termine trascendenza viene spesso utilizzato da Bataille per indicare l’irriducibile distanza che caratterizza la condizione dell’essere umano in quanto soggetto separato rispetto a un mondo da lui stesso ridotto alla dimensione di cosa utilizzabile, di strumento. In questo senso la trascendenza verrebbe a connotare quella dimensione profana in cui l’essere umano conduce gran parte della sua esistenza, sempre proiettato verso la ricerca di un utile futuro, di un bene ulteriore rispetto alla propria vita.

La lucida consapevolezza che ogni via di salvezza è impossibile, appare essere una delle cifre dominanti di tutta l’esperienza di pensiero di Bataille; ed è nel consapevole rifiuto di ogni escatologia che questa esperienza intellettuale si rivela profondamente anticristiana e angosciosamente tragica.

Angoscia e comunicazione 

Essere consapevoli che ogni via di salvezza è consumata genera, dunque, angoscia, ma al contempo è dal fondo di questa angoscia che si scatena, come un’esplosione improvvisa e sgomentante, il riso, un “riso maggiore” come Bataille lo definisce. “Veder perire le nature tragiche e ciononostante essere capaci di ridere al di là di ogni profonda comprensione, sensibilità e compassione nei loro riguardi: tutto ciò è divino” si afferma in una delle citazioni nietzscheane su cui Bataille non smetterà di tornare nel corso di tutta la sua opera. Si tratta di un riso che nasce dalla consapevolezza che, nonostante la nostra pretesa a concepirci come delle identità autocentrate e in sé compiute, siamo invece irrimediabilmente insufficienti a noi stessi; che la singolarità che noi siamo è costituita innanzitutto da una mancanza, da una ferita che ci espone ad altre singolarità nella forma della comunicazione. È da questa angoscia, dall’angoscia dell’impossibilità della nostra condizione, di quell’impossibilità che costituisce intimamente l’essere stesso, che emerge quindi la vita, come apertura e condivisione. Apertura ad altri esseri come noi mancanti, intimamente feriti, e condivisione di questa stessa mancanza, condivisione di un nulla. Condivisione, in fin dei conti, di ciò che è impossibile condividere: la morte.
Il riso è, per Bataille, una di quelle esperienze privilegiate ed eccessive in cui l’uomo può, eccezionalmente, per un istante e solo per un istante, porre se stesso nel punto di frattura dell’essere, innanzitutto di quell’essere che lui stesso è e che pretenderebbe ad una sua autonoma consistenza e completezza; a darsi cioè, con un’espressione che Bataille riprende dal fisico Paul Langevin, come ipse. Il riso, come l’erotismo, il sacrifico, la poesia, l’esplosione rivoluzionaria, in una parola tutto ciò che si dà come dispendio improduttivo e in pura perdita, ci pone nel punto in cui il tutto, inteso come l’ordine compiuto dell’esistente, non tiene, e deve essere
necessariamente messo in questione.

È nell’urgenza di questa messa in questione radicale di tutto ciò che è che Bataille pone la vera essenza del pensiero filosofico, ed è in questo senso, dunque, che egli deve essere inteso come filosofo.

La macchia cieca del sapere 

Contrariamente all’accusa sartriana che vede nelle sue opere, in particolare ne L’esperienza interiore, l’affermarsi di un cupo misticismo irrazionalistico, Bataille rivendica sempre di essere rimasto fedele a un’esigenza di pensiero che non rifiuta la razionalità ma che, anzi, la spinge alle sue estreme conseguenze e che, proprio così, fa esperienza del fatto che il sapere, con cui pretendevamo di padroneggiare il mondo si rovescia repentinamente in un indicibile non-sapere, in cui non possiamo che sentirci spossessati di tutto, in primo luogo di noi stessi. Ciò che va tenuto sempre ben presente è, tuttavia, che il non-sapere non può essere inteso come un luogo altro dal sapere, cui possiamo accedere per vie alternative che permettano così di farlo nostro. Il non-sapere è l’altra faccia del sapere, il suo rovescio intenibile.

Il non-sapere non è un sapere di qualcos’altro ma un nulla di sapere; così come la macchia cieca è il punto in cui il nervo ottico si innesta nella retina rendendo possibile il vedere, ma costituendo un punto di totale assenza di visione. Ricorrendo a questa immagine cara a Bataille, il non-sapere rappresenta la macchia cieca che la nostra pretesa di un sapere completo scopre al proprio interno come condizione stessa del sapere e che fa sì che esso si dia sempre come mancante, incompleto. Il non-sapere è un eccesso del sapere. Un eccesso che non ci proietta verso una dimensione esteriore al sapere ma che scopre al cuore del sapere stesso un’assenza, un’impossibilità di sapere. Potremmo dire, utilizzando un concetto lacaniano, che il non-sapere si colloca in una posizione che è quella dell’extimità al sapere.

La necessità di Hegel

Ma come si rapporta quella forma particolare del sapere che è la filosofia nei confronti del non-sapere? È solo indagando il rapporto che Bataille instaura con Hegel che la dinamica paradossale del rapporto tra sapere e non-sapere si dispiega completamente e si può cogliere a pieno la portata e il ruolo che Bataille assegna alla filosofia. Il sistema hegeliano rappresenta, agli occhi di Bataille, un passaggio imprescindibile per lo sviluppo del suo stesso pensiero, tanto da portarlo ad affermare ne Il colpevole che “senza Hegel, innanzitutto avrei dovuto essere Hegel”. Derrida, nel fondamentale saggio che dedica a Bataille, parla, a questo proposito di un “hegelismo senza riserve” e afferma che “tutti i concetti di Bataille sono hegeliani”. È solo prendendo sul serio Hegel fino in fondo che Bataille può giungere a far esperienza di ciò che eccede il sistema hegeliano, di quella “negatività senza impiego” di cui il sistema non può dar conto. Besnier definisce, a questo proposito, l’operazione messa in atto da Bataille sul pensiero hegeliano come una “ripetizione differenziale”.

Il sistema hegeliano rappresenta, agli occhi di Bataille, uno sforzo titanico, il massimo sforzo che la ragione umana sia mai riuscita a mettere in atto per pervenire a un sapere in grado di dar conto e di comprendere in sé tutto il possibile; cioè in grado di dare risposta a quell’esigenza di totalità da cui nasce nell’uomo il desiderio stesso di sapere. Si tratta di un’esigenza di controllo sulla totalità che risponde a quel paradigma dell’utile che ci porta a tentare di ridurre il mondo a un insieme di cose, di oggetti a nostra disposizione. La filosofia, intesa in questo senso, appare dunque essere il pieno compimento dell’esigenza del sapere e merita la definizione di Scienza per eccellenza.

Parole scivolanti

Come spesso accade nel pensiero di Bataille è proprio nel momento del suo compimento che un’esperienza implode in se stessa facendo emergere dal suo interno la propria impossibilità. Il sistema hegeliano, non può, in effetti, dar conto di ogni negatività, strumentalizzandola e rendendola funzionale al sistema stesso.

Nei primi anni trenta Bataille indicherà questo scarto non riassorbibile dal sistema come “bassa materia”. Sarà questa solo una delle tante espressioni con cui egli tenterà, da qui in poi, di indicare ciò che si presenta, nel vivo dell’esperienza umana, come un negativo non giustificabile, come dissipazione, dépense senza senso perché priva di qualsiasi tornaconto. Sacrificio, erotismo, riso, sovranità, poesia sono espressioni sempre inadeguate, “parole scivolanti” come anche Bataille le chiama. Parole che svolgono a pieno la loro funzione solo nel fallimento della loro intenzionalità significante.

La negatività non può ridursi a un manico di badile

A proposito di questa negatività, in relazione alla filosofia hegeliana, Bataille affermerà, ne Il colpevole: “Immagino che la mia vita – o il suo fallimento, meglio ancora la ferita aperta che è la mia vita – da sola costituisca la confutazione del sistema chiuso di Hegel”. Si tratta, dunque, di una negatività che deve essere riconosciuta “per quello che è: negatività vuota di contenuto”. Questa negatività che non può essere superata, nel senso dell’Aufhebung hegeliano, costituisce un’assenza di senso, una follia, perché non rientra in alcun calcolo. Ed è attorno a essa che si muove vorticosamente non solo tutto il pensiero di Bataille, ma, a suo avviso, l’esistenza stessa di tutto ciò che è. Si tratta di quanto rimane come eccesso ingiustificabile una volta che il lavoro di appropriazione totale del sapere filosofico è giunto al suo soddisfacimento finale, costituendo così il negativo non riassorbibile nel sistema che giunge a travolgere il sistema stesso.
L’uomo Hegel, una volta spinta la ragione all’estremo del possibile, non ha avuto il coraggio di soffermarsi su quel limite in cui esso si rovescia nell’impossibile ma se ne è ritratto immediatamente per dedicarsi a una tranquilla esistenza da professore universitario che ripete il suo sistema, nel quale annulla se stesso, occulta quell’abisso che ha scorto, in nome di una salvezza che lo vuole morto e lo riduce a essere, come afferma Bataille, “un manico di badile”, un semplice strumento utile alla chiusura in se stesso del discorso omogeneo che non riconosce più alcuna possibilità di eccesso.

Lungi dall’esaurirsi in questa funzione strumentale, il pensiero filosofico si viene invece a collocare, per Bataille, proprio in quel punto paradossale in cui il sapere, completandosi in sistema, lascia apparire il non-sapere, non tanto come un “aldiquà” o un aldilà del sapere ma come il suo rovesciamento che non si darebbe, tuttavia, senza il compimento del sapere stesso come sapere assoluto. Quello compiuto da Bataille, infatti, non è il tentativo di contrapporre al sapere hegeliano una forma di sapere esterna e alternativa. Il sapere non è che uno e si deve riconoscere a Hegel di averne data la formulazione più compiuta che va assunta con la massima coerenza, proprio perché è dal suo stesso compimento che emerge anche la necessità del suo rovesciamento. Perciò Bataille può affermare che i suoi “sforzi riprendono e disfano la Fenomenologia di Hegel”.

Il lavoro della filosofia

Seguire il corpo a corpo di Bataille con il pensiero hegeliano ci porta a far emergere nella sua opera due significati del termine filosofia. Significati per certi versi contrapposti ma anche tra loro strettamente connessi, in quanto il primo è la condizione necessaria dell’altro.

Da una parte, come abbiamo visto, vi è la filosofia intesa come compimento dell’esigenza di sapere, ma al tempo stesso di potere, che l’uomo pretende di esercitare sulla totalità del possibile. Hegel rappresenta il punto più alto di questa esigenza filosofica in quanto nel suo sistema la ragione pretende di risolvere tutto il possibile nella forma di ciò che è logicamente necessario. Hegel è dunque, agli occhi di Bataille, il pensatore della necessità logica del tutto.

Il sistema hegeliano sembra non lasciare dunque spazio per l’incalcolabile, per la chance, per ciò che si sottrae alle logiche dell’utile. Si tratta di un pensiero che si colloca pienamente su un piano che, per Bataille, è quello del lavoro in contrapposizione a quello dell’esperienza.

L’oscenità della filosofia

Proprio, nel momento in cui pretende di comprendere il tutto, il pensiero filosofico si trova a scontrarsi con l’impossibilità costitutiva dell’essere, quella per cui l’essere eccede sempre se stesso e ogni tentativo di catturarlo nelle forme concluse, omogenee e omogeneizzanti del discorso.

L’unico modo per rendere oggetto di pensiero tale movimento inafferrabile è allora quello di far esperienza del fallimento del pensiero stesso. È quanto Bataille tenta di fare, ad esempio, già nei primi anni trenta sviluppando l’”eterologia”, una paradossale scienza di ciò che è completamente altro, una impossibile scienza dell’eterogeneo, di quanto si sottrae totalmente alla presa del sapere scientifico.

Ciò che il pensiero è chiamato a fare sarà sempre, per Bataille, porsi sul limite oltre il quale il pensiero si inabissa, senza mai giungere, però, a un oltrepassamento di tale limite. Ciò, infatti, ci porterebbe o a sprofondare, da una parte, nell’insensatezza del silenzio e della follia oppure, dall’altra, a retrocedere verso un tentativo di dare forma a ciò che è eterogeneo a ogni forma ma, in tal modo, addomesticandolo e perdendolo. È questo il senso di ciò che Bataille intende come trasgressione e che costituisce per lui la ragion d’essere anche dello stesso pensiero filosofico, tanto da portarlo ad affermare nel Metodo di meditazione: “Penso allo stesso modo in cui una ragazza si toglie il vestito. All’estremo del suo movimento, il pensiero è l’impudicizia, l’oscenità stessa”.

Concretizzandosi in un movimento di continua trasgressione la filosofia costituisce allo stesso tempo un’esperienza tragica, in quanto non può sottrarsi alla colpa di collocarsi in una posizione intenibile. Il suo tentativo infatti è di dire l’eccesso, la dépense, ciò che collocandosi fuori della scena del rappresentabile è, appunto, osceno, ma di dirlo nella consapevolezza che ogni tentativo di concettualizzazione è, a questo livello, un tradimento di questo movimento dissipativo e della stessa esigenza intima della filosofia che, come si afferma ne Il colpevole, “risponde all’aspirazione dell’uomo che esige la messa in questione di tutto ciò che è”. Proprio per questo la grandezza della filosofia risiede nella “mancanza di risultati reali”, perché non vi è pensiero che valga la pena di essere pensato se non quello che, con il suo continuo fallimento, ci mette reiteratamente di fronte all’impossibile, lasciandoci sguarniti, indifesi e mancanti, consapevoli del fatto che non vi è salvezza.

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