“Non è colpa tua”. La caccia all’untore di media e politica

di Lorenzo Natural

Immagino che ognuno di noi stia cercando di affrontare queste lunghe giornate riempiendole di attività, di contenuto, dando loro una forma. C’è chi si è tuffato in memorabili cavalcate letterarie, chi con le mani in pasta in cucina, chi non riesce a resistere allo sport fai-da-te, chi è sprofondato nel divano davanti a Netflix. Tutti modi certamente diversi, ma simili nella necessità di dar sostanza a un vuoto incalcolabile, imprevedibile, inatteso. Inatteso per noi, che delle nostre vite abbiamo inevitabilmente fatto un susseguirsi di scadenze e impegni.

C’è poi chi, per ovviare al continuo procrastinarsi di un possibile ritorno alla normalità che si fa sempre più lontano, non si arrende del tutto alla residenza forzata. Ecco i vecchietti che escono decine di volte al giorno per fare la spesa, i cani strapazzati nelle strade da proprietari con le articolazioni arrugginite, le corse clandestine all’alba esercitate da improbabili corridori della domenica.

Eppure ciò che accomuna queste diverse esistenze è la condivisione della gogna sociale a cui sono sottoposte. Non passa giorno che solerti nuove forze di polizia, vigilanti dai balconi e operanti sui social, individuino i nuovi untori. Nelle chiacchiere in famiglia, nelle file per i supermercati, nelle telefonate ai parenti: ovunque matura l’astio verso gli inadempienti, gli anarchici, gli infami, i presunti “colpevoli” di questo infinito limbo, la causa primaria del ritardo della ripartenza.

La penetrazione nella percezione collettiva di questa minaccia tutta interna all’emergenza che stiamo vivendo non nasce però dal basso. A intervalli regolari, le istituzioni locali si sono scagliate con toni che imbarazzerebbero sceriffi di desolate frontiere mesoamericane, raggiungendo l’apice con le minacce di De Luca di mandare «i carabinieri con i lanciafiamme» a sedare ipotetiche feste di laurea. Toni quasi grotteschi per la loro gravità che non hanno sortito alcuna reazione, anzi, hanno trovato complicità e favore da parte della popolazione, impegnata a individuare i capri espiatori del prolungamento della quarantena. La stessa sete di acredine, repressione, odio ha accompagnato l’unico sussulto di reazione collettiva, ovvero le rivolte carcerarie scoppiate a inizio emergenza (nonostante sia noto come non sempre tali rivolte siano esattamente spontanee).

Di certo, lo Stato di diritto – che volente o nolente rappresenta la base giuridica su cui si fonda la democrazia parlamentare italiana, fino a ieri tanto cara – ha perso in questa circostanza ogni valenza in nome dell’emergenzialità. La necessaria drasticità delle misure in atto viene attribuita, oltre che alla fisiologica contenzione del contagio, all’irresponsabilità dell’individuo. Per giustificare una tale condizione di emergenza lo Stato (ben supportato dai media) si è prodigato nell’evidenziare l’inadempienza dei propri cittadini, scaricando su di essi gran parte della difficoltà incontrate nella gestione della crisi. Il capolavoro (bio)politico matura nel momento in cui l’istituzione ha il solo compito di indicare il colpevole: sarà poi la massa, il popolo, la gente stessa, il mezzo con cui punire gli inadempienti. Lo Stato si deresponsabilizza pilatescamente, lasciando al “buon sentire comune” – sapientemente indirizzato – il lavoro sporco. In tutto ciò, il popolo pare non solo accettare, ma persino condividere le misure in atto, come dimostra un recentissimo sondaggio dell’Istituto Piepoli (www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/04/07/sondaggio-piepoli-cresce-la-fiducia-nel-governo-e-nel-premier-conte_64dd4114-b8c1-4430-9197-0a6c4d06c353.html).

Ovviamente è semplice riconoscere nel vicino di casa, nel vecchietto del quartiere, ma anche nel barbone o nell’immigrato che bivacca davanti alla stazione (e lo dico pur avendo posizioni tutt’altro che filoimmigrazioniste) il pericolo numero uno del diffondersi del virus. Si tratta di un punto di vista immediato, orizzontale, incapace di scendere nelle profondità dei rapporti causa-effetto di questa crisi, un punto di vista grossolano che allontana pericolosamente ogni prospettiva di analisi verticale dell’increscioso conflitto che ha trasformato una certo grave emergenza in un disastro sanitario, economico, politico, sociale e umano.

In che modo si è arrivati ad accettare non tanto le coercizioni in sé, quanto le supposte giustificazioni che le hanno scaturite? Si sa, i dati, i “freddi numeri” sono fatti incontrovertibili, hanno l’effetto di cristallizzare il dibattito, sono l’arma con cui azzerare ogni discussione. Attraverso alcuni di questi dati si è instillato da un lato un securitario bisogno di protezione, dall’altro la convinzione che, sotto sotto, se il virus si è diffuso in questa maniera e se l’Italia è al collasso, la colpa sia stata soprattutto nostra e dei nostri comportamenti sociali, dei nostri aperitivi, delle sciate in montagna, dei weekend sulla riviera ligure, delle movide in via Torino. Colpa, insomma, della solita indisciplinatezza italica: pizza, pasta e mandolino.

“Troppa gente in giro” (www.ilsole24ore.com/art/coronavirus-stretta-controlli-piu-posti-blocco-pasqua-ADJcoBI)

“Così non ne usciamo più” (bologna.repubblica.it/cronaca/2020/04/04/news/bologna_spesa_affollata_nel_quadrilatero_cosi_non_ne_usciremo_piu_-253089794/)

Questi i mantra recitati nelle ultime settimane dall’informazione. Anche Il Fatto Quotidiano, già il 20 marzo recitava:

“Record di denuncie: più di 9mila in un solo giorno”                    (www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/20/coronavirus-record-di-denunce-piu-di-9mila-solo-in-un-giorno-ad-aviano-pure-3-militari-usa-preparavano-un-barbecue/5743725/).

Tutto un richiamo allo scandalo, all’ordine, a misure e controlli più stringenti: l’indignazione di lettori imbestialiti, le foto dal balcone a immortalare i trasgressori, finanche le violenze verbali e fisiche. Ma sviscerando davvero questi famigerati dati, a quanto ammontano le denunce? Sommando i numeri giornalieri del Viminale, da inizio emergenza all’8 aprile sono stati effettuati ben 5.684.315 controlli sulle persone fisiche. Di queste 210.059 sono state sanzionate, 3629 denunciate per falsa dichiarazione, 476 per inosservanza della quarantena. Il 7% circa dei controllati sono quindi risultati trasgressori. (Cf. www.interno.gov.it/it/coronavirus-i-dati-dei-servizi-controllo)

Se teniamo conto che la grandissima maggioranza delle persone è rimasta – e rimane – diligentemente a casa, e quindi non viene controllata, il dato stimabile si può abbassare ancora di qualche punto percentuale, rendendo il numero delle infrazione totalmente fisiologico e consegnandoci piuttosto l’immagine di un Paese tutt’altro che irrispettoso delle dure restrizioni a cui è sottoposto.

Numerosi, pure, i controlli negli esercizi commerciali: ben 2.370.222. Soltanto in poco più di 5000 casi sono stati presi provvedimenti: 4380 sanzioni e 672 chiusure provvisorie o totali, ovvero un ridicolo 0,2% del totale, segno di un rispetto più che cinese direi quasi nordcoreano delle direttive governative. Eppure l’immagine del vecchietto che pesca alla Darsena di Milano, del tossico burlone che giustifica ingenuamente la sua uscita per fare “rifornimento”, della ragazza trentina che va a camminare nel bosco devono indignarci, devono farci vergognare per la nostra incuranza delle leggi e, soprattutto, riconoscere in questi miseri individui la causa del protrarsi del contagio, invocando per loro multe, arresti, ergastoli, rinunci a diritti civile e, perché no, morte. Ovviamente questo discorso e questa provocazione non valgono per i contagiati “conclamati” che non rispettano l’isolamento e le prescrizioni. Ma il punto è proprio questo, ossia che i media tendono volutamente a mettere sullo stesso piano la passeggiata in solitaria e l’irresponsabile uscita di una persona in quarantena.

Per sfuggire a questo cortocircuito, per riacquisire il senso profondo delle cose, per evitare di cadere nel tranello dei richiami a una supposta unità nazionale da parte di un establishment che per anni della componente nazionale se n’è allegramente sbattuto le palle, è necessario riflettere sulla natura di questa crisi. È necessario farlo per convincerci a vicenda che non può ricadere sempre sulle nostre spalle il peso di decenni di scelleratezza economico-politica. Dobbiamo ripetercelo, dircelo a vicenda senza pudore: “Non è colpa nostra!”

Non è colpa nostra se vent’anni di neoliberismo hanno portato tagli tali da devastare una rinomata eccellenza come la sanità italiana.

Non è colpa nostra se la speculazione urbanistica e industriale ha rovinato il nostro paesaggio e avvelenato i nostri polmoni rendendoli – ahinoi – più suscettibili a questo virus bastardo.

Non è colpa nostra se in un mercato globale uomini e merci, e con loro i virus, circolano impazziti senza discontinuità, rendendo ogni soluzione che non sia draconiana totalmente insufficiente.

Non è colpa tua, vecchietto ottantenne, che vivi nel tuo appartamento di 50mq con 600 euro di pensione che spendi a giorni alterni al supermercato e che non vorresti morire chiuso nella tua solitudine a subire Barbara D’Urso.

Non è colpa tua, runner, che forse della tua corsa mattutina hai fatto un vizio, forse una droga, ma che a parte qualche storta e un po’ di invasamento è molto più sano del pacchetto di sigarette che lo Stato amorevolmente continua a concedere al fumatore.

Non è colpa tua, proprietario di un cane che ogni giorno per anni accompagni, a volte forse unica compagnia che ti ritrovi, con la grandine e sotto il sole cocente a fare i bisogni e ora ne approfitti per farti un isolato in più.

Dobbiamo assolutamente continuare a credere, almeno nell’intimità dei nostri pensieri e in quella delle nostre confidenze, che ciò che stiamo vivendo non è la normalità. Dobbiamo, con tutto noi stessi, rifiutare che questa abitudine possa farsi strada, che le nostre vite possano pian piano conformarsi a questa eccezionalità. Se vogliamo davvero “Restare umani” dobbiamo anzitutto dimostrarlo con la nostra capacità di osservazione critica, che proprio in questi momenti deve restare viva, salda, pensante. Non vuole essere un invito alla disobbedienza civile, ma a una disobbedienza della coscienza sì. Un invito a pensare che quando tutto ciò sarà finito, qualcuno dovrà pagare. Non per vendetta, ma per giustizia. “Pagherete tutto, pagherete caro”, per una volta, non sia una sterile minaccia… ma una promessa.

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