di Stefano Tieri
“Ho dimenticato il mio ombrello”. Una frase come tante, a meno che – ad annotarla – non sia stato un uomo di nome Friedrich Nietzsche. E a meno che, a notarla, non sia stato un tale di nome Jacques Derrida, che la prese e ci ricamò sopra un testo, letto nel 1972 durante un convegno dedicato al filosofo dello Zarathustra.
“Non saremo mai certi di sapere che cosa Nietzsche abbia voluto fare o dire annotando queste parole”, osservava Derrida. La frase, tra virgolette, esprimerebbe – a sua volta – una citazione trascritta dal filosofo tedesco? Un’osservazione da sviluppare in un secondo momento? Un motto di spirito? O, ancora, un codice noto a lui solamente? Inizia così la lotta per la padronanza ermeneutica della frase: da un lato la psicoanalisi, “che se ne intende quanto a oblio e a simboli fallici”; dall’altro gli Heidegger di turno, impegnati a rintracciare l’essenza dell’essente, risalendo la storia della metafisica a ritroso fino a scontrarsi con una qualche origine (quale? ovviamente la più anteriore di tutte, prima che la grande corruzione ebbe inizio). Entrambi i fronti ad affermare con sussiego: la frase deve significare qualcosa, al significante deve corrispondere il suo significato, e qui pronta ho la chiave interpretativa per scoprire la verità che si cela sotto parole tanto oscure.
E se, invece, non ci fosse verità da disvelare? E quello di Nietzsche fosse quindi, ‘semplicemente’, un nonsense? O ancora: se fosse stato finto, parodicamente, un senso che in realtà manca? E se non sussistesse, in ultimo, proprio quella realtà cui si vorrebbe collegare quel senso che si ritiene proprio di ogni frase e che ne certificherebbe la ‘validità’? Quel senso reale che, nel dirsi ‘vero’, non riesce più a ridere di sé, dissimulando ogni incomprensione tramite un’ermeneutica che la converta in una comprensione fittizia, di comodo, utile a chiarirsi il dilemma (i punti interrogativi lasciati in sospeso, c’è poco da fare, piacciono sempre meno). Le maglie delle parole si allargano, allentano i nodi dei proprî stretti reticoli, finalmente libere dai vincoli del significato.
Derrida parodizza i discorsi veritieri che potrebbero intervenire in un ipotetico dibattito (oltremodo accademico) sull’interpretazione della frase nietzscheana “ho dimenticato il mio ombrello”. E lo fa, come scrive lui stesso, con certe “pesantezze retoriche, pedagogiche, persuasive” (le stesse prese a prestito in questo roboante – quanto inutile – articolo). Afferma una verità e al tempo stesso smaschera la mancanza del vero dei discorsi veritativi. Lo fa ridendo, dei discorsi ‘veri’ e infine di sé: ecco la parodia, il contro-canto.
Io parlo in modo incomprensibile, sono – come Nietzsche – qualcosa di incomprensibile (wir Unverständlich, “noi incomprensibili”, è il titolo di un frammento della Gaia Scienza). Però parlo: perché voglio farmi comprendere – sennò mi accontenterei del silenzio. Parlo e mi burlo della parola, di chi sta lì ad ascoltarmi (o leggermi) credendo di trovare in ciò che dico una qualche ‘verità’, quando invece sto semplicemente giocando. È semplice giocare? e giocare con le parole? Nella casa di cura di Jena, il filosofo-folle Nietzsche “si perde in giochi di parole” (così la cartella clinica redatta dai medici). La parola dimentica il suo significato, il discorso diviene parodia di discorso: la follia si concretizza in un gioco con le parole – almeno agli occhi di quel Logos che è al tempo stesso ragione e linguaggio, in modo bi-univoco: ragione in quanto linguaggio, linguaggio in quanto ragione. Ma finché ne parliamo solamente, forse, non se ne esce.
Se un giorno dipingessi un quadro, probabilmente lo intitolerei “Le vacanze di Hegel” (o, meglio, “Les vacances de Hegel”). Ne riproduco qui sopra uno schizzo mentale, non escludendo che un simile dipinto sia stato già compiuto, magari da Magritte. Siamo dinanzi, nuovamente, ad un ombrello dimenticato: Hegel non vi si ripara sotto né lo regge in mano. Un ritratto mancato, dipinto in assenza del soggetto: immaginatevi il Filosofo che nel frattempo se ne sta in vacanza in qualche amena località balneare e viene improvvisamente colto di sorpresa dal temporale. In quel preciso momento si rende conto di aver dimenticato l’ombrello a casa: e a cosa può pensare, imprecazioni a parte? La dialettica (ovvero la legge della realtà e della razionalità – “ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale”) va in crisi. Come può infatti sussistere l’idea di spiaggia insieme all’idea di pioggia, per quanto grande sia l’assonanza fra le due parole? È così che crolla un sistema filosofico, le cui fondamenta non saranno mai sufficientemente solide.
Intanto la parola (l’immagine) torna al quadro che, guardandosi meglio, chiarisce: ogni sintesi è impossibile fra l’oggetto che pretende di raccogliere l’acqua (il bicchiere) e quello che, invece, l’acqua vuole allontanarla (l’ombrello). Ribaltando quest’ultimo a testa in giù cambierebbe poco: l’ombrello si trasformerebbe sì in un grande contenitore d’acqua, ma il bicchiere che prima era sulla sommità finirebbe irrimediabilmente per frantumarsi a terra, in decine di schegge di vetro che renderebbero difficile ogni movimento. Io rappresento la parodia della dialettica: una sintesi parodica, l’unica possibile in un mondo continuamente in contraddizione con se stesso.