“Piazza degli Eroi” di Bernhard: la civiltà è afona

di Francesco Bercic

Roberto Andò porta il “testamento” di Thomas Bernhard al Rossetti di Trieste, in un’opera di quasi tre ore, con un cast d’eccellenza nel quale sicuramente spicca la figura di Renato Carpentieri. Il lascito dell’autore austriaco si chiama Piazza degli Eroi (Heldenplatz), che fa riferimento all’omonima piazza viennese, un crocevia storico per la città, dove Hitler annunciò l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938 – la stessa piazza che però Bernhard sceglie di ambientare nella (sua) attualità: siamo infatti nel marzo del 1988.

L’impressione più forte che suscita questa tragedia, perché di tragedia di fatto si parla, è una sensazione di contraddittorietà, un vago senso di mistero che si riscontrava anche tra i silenziosi commenti del pubblico al termine: facce stranite, qualche battuta sul pessimismo “folle” degli intellettuali austriaci e il barista del teatro (consultato durante la necessaria pausa) che confermava di aver carpito reazioni fra loro molto diverse, dalla noia all’estasi, dallo stupore alla rabbia. Insomma, non è un’opera dalla facile lettura. Eppure, la trama è di per sé semplicissima. Morto suicida il professor Schuster, vengono raccontate prima le reazioni delle sue domestiche, poi il funerale con le figlie e il fratello, infine l’incontro di tutti i personaggi nel salone del defunto. Non “succede” nulla, sono solo lunghi dialoghi (molto spesso, monologhi) a far da padrone di un’opera che proprio per questo ha i tratti dell’incomprensibilità: dall’inizio si sa già tutto, dalla prima battuta si intravede già l’epilogo e tutto sa di definitivo, in una staticità disarmante.

Il professor Josef Schuster è morto, ma continua a vivere nelle parole dei suoi cari, che per l’intera durata dell’opera non fanno che ripetere le sue convinzioni e ossessioni. Eterno è il suo pessimismo cosmico, che ha innanzitutto una connotazione politica e geografica. L’Austria è “il luogo da cui fuggire”, poiché cinquant’anni dopo Hitler non è cambiato nulla, la folla è sempre in cerca dello stesso “uomo forte”. La massa, però, non si vede mai. Si racconta, si guarda dall’alto di una finestra. Perché da questo delirio il professore – e quindi, come in un domino, tutti i protagonisti – è escluso. L’unica soluzione che trova è appunto lo sfogo, misto a un desiderio di fuga mai realizzato; chimere che diventano una costante delusione, in un lento ma inesorabile inasprimento verbale, colmo di misantropia, e di solitudine.

La critica di Bernhard è certamente mirata verso quell’Austria che continuamente lo tradiva, tuttavia il suo giudizio ha i tratti dell’universalità. La sua è una minuziosa descrizione della condizione del filosofo, emarginato per definizione, incapace di accettare e di vivere il presente e, allo stesso tempo, reo di aver portato con sé tutti i suoi conoscenti, tutti “morti” con lui.

L’unico personaggio che sembra invece mantenere una propria identità, che non appare scalfito più di tanto dal recente suicidio, è il fratello del professore, Robert Schuster (Renato Carpentieri). Anche lui si muove nello stesso torpore ma appare, al contrario, distaccato, disilluso; non a caso l’unico a sembrare “normale”, in uno stato non alterato.

L’apice narrativo si raggiunge nell’abbraccio fra il fratello del defunto Robert e quell’enigmatica figura che vaga per tutte e tre le ore in mezzo alle scene, sempre intangibile eccetto che per un momento: appunto, quello dell’abbraccio. Il ruolo dell’uomo “invisibile” è suonare il piano accompagnando ogni cambio di scena (nel copione viene chiamato infatti “pianista”), però è impossibile non vedere in lui l’anima del defunto, come suggeriscono le sue espressioni caricaturali e il suo vagare insensato.

L’abbraccio quindi, non è niente di meno che l’incontro tra la vita (di Robert) e la morte (di Josef): succubi di un’uguale depressione, i due fratelli non si riconoscono, il loro è un abbraccio incompiuto, in mezzo c’è tutta la distanza di un amore mancato, la vita e la morte sono incompatibili. Le due scelte divergono e hanno, paradossalmente, conseguenze opposte.

Chi ha scelto la vita, Robert, è sì vivo, ma il suo volto è incapace di tradire un sorriso. I reumatismi fisici non sono che tiepidi riflessi di profondi reumatismi interiori, sopportati ma non accolti, ferite ancora apertissime e dolentissime. Chi ha scelto la morte invece, il pianista Josef, è immerso in un enigma ossimorico: da un lato, vede e causa le sofferenze altrui, riduce a grida nevrotiche la vita delle sue domestiche e porta alla pazzia sua moglie; dall’altro però è capace di (ri)trovare quell’unica fonte di infantile speranza, quell’unica gioia istantanea, la musica.

La musica, per i vivi, non c’è. È coperta dalle urla della folla delirante, è strumentalizzata dagli stessi nazisti in chiave politica. L’armoniosa sequenza di note che scaturisce dalle mani del pianista trascende, letteralmente, la “merdosa” (cito testualmente) realtà tardonovecentesca. L’unico che vi partecipa è colui che alla chiassosa modernità ha risposto con un secco e incontrovertibile no, dicendo così no a tutta l’esistenza, e ritrova l’essenziale musicalità da solo (da morto), in un solipsismo che non è di questo mondo, sovraumana solitudine.

Bernhard così ammonisce le presenti e future società, così dice addio a un’esistenza irrisolta, nella quale ha indagato tutte le possibili soluzioni – la filosofia, il suicidio, e infine pure la follia – ma alla fine morte e vita, musica e caos non si sono riconosciuti, si sono anzi ignorati in un abbraccio che sa di beffa. Non è un elogio del suicidio il suo, poiché è lo stesso inevitabile incontro tra i due fratelli a suggerire la necessità di un’unità, una dimensione onniavvolgente che coniughi i due fratelli.

La modernità, ma forse l’uomo stesso, in tutta la storia, non è in grado di dare senso e significato a quell’abbraccio. Sono infatti due individualità a toccarsi, due individui a compartimenti stagni, e quindi deboli, “materiali”, soli e tristi. Il fallimento di Bernhard è il fallimento di tutti gli uomini: l’amore di un abbraccio è insopportabile, escluso dalla storia; ma è solo lì, non in un banale buonismo, ma in un’esigenza ontologica e esistenziale, è solo lì che può suonare la musica.

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