Plasticità e cervello

di Giovanni Isetta

cervello

Non è facile orientarsi nella vasta letteratura che riguarda il cervello. Gli scaffali delle librerie abbondano di pubblicazioni riguardanti il funzionamento, le implicazioni etiche, le potenzialità di quest’organo al quale sempre di più è rivolto l’interesse di lettori non specialisti.  Considerando l’avanzamento della ricerca e le importanti scoperte avvenute, cercare di conoscere qualcosa in più su questa parte di noi così stupefacente e complessa appare infatti fondamentale al giorno d’oggi. Ritengo però che non sia sufficiente soffermarsi solamente su letture di carattere didattico o fantascientifico. Nonostante sia rilevante aggiornarsi sugli sviluppi della ricerca e nutrire l’immaginario con descrizioni di possibili future neuro-meraviglie, non si deve dimenticare quanto sia indispensabile informarsi e riflettere sugli effetti che tali studi stanno avendo nella vita di tutti noi. Proprio per questo motivo voglio proporvi la lettura di un libro che unisce in modo originale la riflessione critica filosofica e i saperi delle neuroscienze. Non preoccupatevi, non si tratta di un trattato di mille pagine, né di un testo che confronta i due saperi facendone prevalere uno sull’altro. Esso si rivolge sia ai filosofi che ai neuroscienziati e, soprattutto, ai non specialisti perché il cervello non è prerogativa di chi lo studia: ognuno di noi ne possiede uno.

Il libro è Que faire de notre cerveau? di Catherine Malabou (Bayard éditions, Paris 2004). Il titolo italiano è invece Cosa fare del nostro cervello (Armando, Roma 2008): inspiegabilmente, l’editore si è dimenticato il punto di domanda. Questa ‘dimenticanza’ può far sembrare il libro uno dei molti manualetti che propongono una serie di consigli su come migliorare le nostre prestazioni, ma non è così. La domanda posta da Malabou sembra suggerire a ognuno di noi che l’attuale conoscenza del cervello può permetterci di farne qualcosa, e che se non ci interessiamo a esso qualcun altro ci penserà. La domanda suona quindi come un appello a una coscienza del cervello. Un richiamo alla responsabilità di ognuno verso la plasticità di quest’organo.

Facciamo un passo indietro. Catherine Malabou è una filosofa francese e attualmente è Professor Of Modern European Philosophy presso l’università di Kingston in Inghilterra. Al centro della sua riflessione c’è il concetto di plasticità. A esso la pensatrice si dedica fin dalla dissertazione di dottorato elaborata sotto la supervisione di Jacques Derrida e Jean-Luc Marion presso L’École des hautes études en sciences sociales. L’elaborazione di tale concetto nasce in un ambito strettamente filosofico (un’interpretazione del pensiero hegeliano) ma già dalla terza pubblicazione, il volume Plasticité (éditions Léo Scheer, Paris 2000), lo spazio di riferimento si amplia di molto. Il volume raccoglie gli atti di un convegno organizzato nel 1999 dalla Malabou sul tema della plasticità, e la sua particolarità consiste nella diversità del contenuto dei contributi. Dai domini dell’arte, con interventi di scrittori, storici dell’arte, cineasti e fotografi, a quelli della scienza con ingegneri, biologi, storici della scienza e matematici, e ancora a quelli della filosofia, la plasticità viene descritta in tutta la sua complessità e capacità di tessere un dialogo fra molteplici campi di sapere. (Per chi fosse interessato ad approfondire il pensiero di Catherine Malabou rimando al sito http://catherinemalabou.blogspot.it/).

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Ma cosa si intende con plasticità? A cosa fa appello Malabou in Cosa fare del nostro cervello? Il termine plasticità viene generalmente utilizzato nell’ambito dell’estetica ed indica la proprietà di un ente di dare e ricevere forma. Pensiamo all’attività dello sculture e al blocco di marmo da lui scolpito. Convinzione della filosofa è che una molteplicità di sintomi dell’epoca attuale dimostrano come la plasticità non possa più essere intesa limitatamente all’ambito estetico. Un primo segno viene individuato nell’idea hegeliana di soggetto plastico. Un ulteriore segnale, ed è quello che qui ci interessa, viene riscontrato nel significato che la plasticità ha acquisito nel campo delle neuroscienze. Dopo la fine del XIX secolo si è scoperto che i neuroni, le cellule del cervello, non sono in continuità fra loro e la comunicazione fra essi avviene attraverso una fessura, chiamata sinapsi, che li separa. La plasticità neuronale indica proprio la capacità che hanno le sinapsi di modulare l’efficacia della loro trasmissione. La loro abilità di trasmettere informazioni da un neurone all’altro può infatti cambiare. Questa scoperta ha comportato un radicale ripensamento del cervello: da organo solido, immutabile, gerarchicamente organizzato si è passati all’idea di una struttura che muta nel tempo, auto-organizzata in comunità di neuroni connessi tra loro come una rete, influenzata dall’esperienza, dall’apprendimento, da eventi accidentali a cui è sottoposta.

In Cosa fare del nostro cervello? Malabou trae le conseguenze di questo radicale cambiamento di prospettiva. Esso implica in primo luogo il superamento della considerazione del cervello come centrale telefonica, mero luogo di operazioni mentali, che lascia posto alla consapevolezza del potenziale delle emozioni, della memoria, delle esperienze nella formazione di quest’organo. E poi, ancor più importante, un accrescimento della portata politica della neurobiologia che, secondo la filosofa, sta imponendo un nuovo assetto del funzionamento politico-economico della società. Ciò sarebbe dovuto al fatto che la nuova concezione del cervello ha fatto emergere una nuova forma di soggettività, il soggetto plastico, che può essere esemplificata in due tipi di individuo: da una parte un soggetto docile e manipolabile, ciò a cui tende il capitalismo contemporaneo, dall’altra un soggetto attivo, consapevole, esso stesso artefice della propria soggettività. Ciò si delinea nella contrapposizione tra plasticità e flessibilità (pensiamo all’utilizzo di questo termine all’interno del mondo del lavoro): un elastico se viene tirato muta la sua forma, ma quando viene rilasciato ritorna a quella originaria (flessibilità); un blocco di marmo invece, se viene diviso, non potrà tornare allo stato precedente (plasticità). In definitiva, se da un lato la scoperta della plasticità ha portato a nuovi modi d’assoggettamento, dall’altro – e Catherine Malabou vuole evidenziare proprio questo – essa può rivelarsi un potente mezzo per opporsi a tale sistema. Come scrive la filosofa all’inizio del libro,

Gli uomini  fanno il loro cervello e non sanno di farlo. Il nostro cervello è un’opera e non lo sappiamo. Il nostro cervello è plastico e non lo sappiamo. La causa di ciò è che per la maggior parte del tempo la flessibilità si sovraimpone alla plasticità, anche nei discorsi scientifici che credono di descriverla “oggettivamente” […]. L’errore è di pensare che l’uomo neuronale sia semplicemente un prodotto neuronale e non anche una costruzione politica ed ideologica (compreso il “neuronale” stesso).
L’esercizio di epistemologia critica intrapresa in questo volume si presenta, quindi, come l’inizio di una rettifica e precisazione dell’uso del concetto [plasticità]. Ma non dimentichiamo che la domanda “cosa fare del nostro cervello?” è una questione che riguarda tutti, che cerca di far nascere in ognuno il senso di una responsabilità nuova. La ricerca intrapresa in questo volume, oltre a muovere le critiche appena enunciate, dovrà permettere a chiunque accetti di seguire il corso del pensiero, in nome della “plasticità” e oltre l’alternativa troppo semplice tra rigidità e flessibilità, di accettare nuove modalità di modifica del sé. Non soltanto “fino a che punto siamo flessibili?” piuttosto “in cosa siamo plastici?”

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