Quando Foucault parlò con un operaio. L'(in)attuale rispetto di una “star” filosofica per il sapere dei lavoratori

di Andrea Muni

“L’intellettuale serve a mettere insieme le idee, ma il suo sapere è parziale rispetto al sapere dei lavoratori”. Con questo titolo esce su Libération del 26 maggio 1973 una conversazione tra José, operaio della Renault vicino alla Gauche Proletarienne – Sinistra Proletaria (gruppo di estrema sinistra maoista/spontaneista) e il già celeberrimo filosofo Michel Foucault. La splendida e “canonica” traduzione italiana di questo scambio si trova in M. Foucault, “Il discorso, la storia, la verità (Interventi 1969-1984)”, a cura di Mauro Bertani, Einaudi 2001. [Qui la traduzione degli estratti è mia]

A cosa serve andare a ripescare una conversazione in tutti i sensi inattuale come questa? Una conversazione tra quella che, nel 1973, è già una “star” filosofica come Foucault e un operaio della Renault? Serve in primo luogo per apprezzare la dimensione di ascolto, di non-paternalismo e non-pedagogismo che Foucault assume nei confronti di José. In secondo luogo, serve come spunto storico per riflettere sul livello di simpatia e complicità che i grandi intellettuali “militanti” degli anni ’60 e ’70 nutrivano pubblicamente, senza problemi, nei confronti di quelle frange della militanza politica che non disdegnavano di portare la lotta nelle strade, nelle università e nelle fabbriche. A Lens, dopo la morte di un gruppo di minatori per una fuga di gas, nel 1970 i militanti maoisti della GP attaccano fisicamente l’amministrazione della fabbrica. Mentre il processo della giustizia ordinaria procede contro i mao’s, questi convincono niente meno che l’anziano Jean Paul Sartre (e altri importanti intellettuali dell’epoca) a difenderli dall’aggressione della Giustizia e dello Stato borghesi. E’ così che Sartre, per evitare che venga chiuso, assume la direzione del giornale della GP (La cause du peuple), e accetta anche di presiedere le sedute di un tribunale popolare incaricato di giudicare, inversamente, i crimini dei nemici della classe operaia. Sullo sfondo di questi eventi Foucault incontra nel 1972 alcuni dei leader della Sinistra Proletaria maoista/spontaneista (Glucksmann e Beny Levy, che partecipano alla conversazione sotto pseudonimo), con cui discute dell’opportunità di istituire dei tribunali popolari, ispirati alla rivoluzione culturale cinese, in grado di giudicare i padroni colpevoli di crimini contro i lavoratori (cf. “Dibattito con i maoisti” in La microfisica del potere, Einaudi, 1977). Una discussione al termine della quale Foucault si dichiarerà vicino a molti dei punti di vista dei militanti maoisti, ma contrario alla forma “tribunale” (quand’anche “popolare”), perché ritenuta irrimediabilmente e storicamente complice dello Stato assoluto seicentesco e poi, a partire dall’800, dello Stato borghese. Questione tutt’altro che secondaria quella della giustizia popolare, a cui si collegano temi ed eventi che siamo soliti considerare fuori dal loro contesto storico e politico, come ad esempio l’idea pasoliniana (1975) di un processo ai maggiorenti della DC e l’assassinio (dopo “processo popolare”) di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse (1978).

Non si pensi però che Foucault critichi il tribunale popolare maoista per un qualche residuo rispetto verso le istituzioni pseudo-democratiche borghesi, la sua controprosta infatti è se possibile ancora più inattuale e radicale di quella dei mao’s. Foucault infatti, come sarebbe piaciuto a Sacher-Masoch (che la rappresenta e la esalta in molti suoi racconti e romanzi), dichiara “scandalosamente” di preferire al limite l’idea di una giustizia popolare sommaria, spontanea e per così dire selvaggia (nel senso di disintermediata e priva di un elemento “terzo”pretestuosamente neutrale).

Nonostante il disaccordo con i mao’s sulla forma tribunale, Foucault decide proprio nel 1972 di iniziare insieme ad alcuni di essi, al compagno Daniele Defert, a Deleuze, a Helene Cixous e a Jean Genet un percorso di militanza politica che prenderà il nome di GIP (gruppo di informazione sulle prigioni), per consentire una presa di parola diretta da parte dei detenuti a proposito della loro condizione. E’ in questo clima che si svolge nel 1973 la conversazione tra Foucault e l’operaio José da cui sono tratti questi “stralci”.

Una conversazione che ha molto da dirci non soltanto sul passato di un mondo che, nonostante tutto, è ancora il nostro, ma anche sul presente in cui viviamo. Un presente che sta divenendo per la comunità degli sfruttati ogni giorno più irrespirabile, e in cui il silenzio e la mancanza di un sostegno ai lavoratori da parte della “classe intellettuale” si fanno ogni giorno più assordanti. L’imborghesimento, più psicologico che economico, degli odierni intellettuali, soprattutto di quelli più giovani (che pure spesso sono poveri e sfruttati come e peggio di un operaio degli anni settanta), è l’effetto ideologico diretto della strategia neoliberale che – all’inizio degli anni Settanta – Foucault e Pasolini denunciavano quasi all’unisono: la violenta omologazione “psicologica” e “culturale” delle classi povere e lavoratrici ai valori borghesi, la nuova normalità consumistica e arrivista ormai trasversalmente concepita come un universale. Leggere e “meditare” questo stralcio significa allora anche aggiungere un piccolo tassello a quella storia urgentissima e ancora tutta da costruire (a cui – tra gli altri – lavora da tempo l’amico Massimiliano Nicoli) che potremmo chiamare una storia dell’autoimprenditorialità – ovvero un’indagine sulla cattura psicologica e sul ricatto economico che il neoliberalismo è riuscito storicamente a imporre nell’ultimo mezzo secolo alla massa degli sfruttati.

José: Il ruolo di un intellettuale che vuole mettersi al servizio del popolo è secondo me quello di riflettere, di diffondere in modo più ampio, la luce che proviene dagli sfruttati. Dovrebbe insomma funzionare come una sorta specchio.

Foucault: Mi domando se tu non stia esagerando un po’ il ruolo degli intellettuali. Certo, siamo d’accordo sul fatto che i lavoratori non hanno bisogno degli intellettuali per sapere quel che fanno, lo sanno benissimo da soli. Per me l’intellettuale è qualcuno che è agganciato non tanto all’apparato di produzione, quanto a quello di informazione. Qualcuno che ha la possibilità di farsi ascoltare. Può scrivere sui giornali, offrire il suo punto di vista. Ma è anche collegato all’apparato di informazione in un senso più tradizionale, cioè nel senso che si rapporta con un sapere che gli proviene dalla lettura di un certo numero di testi, di cui la maggior parte della gente non dispone direttamente. In ogni caso, siamo d’accordo, il suo ruolo non è quello di formare la coscienza operaia, poiché essa esiste già, è piuttosto quello di permettere a questa “coscienza”, a questo “sapere” operaio, di penetrare il sistema dell’informazione, di diffondersi, aiutando così altri lavoratori di ogni sorta a prendere coscienza di quello che sta accadendo. Mi va bene intendere l’intellettuale come uno “specchio”, ma – come dici tu – dovremmo intendere questo “specchio” come un mezzo di trasmissione, di rifrazione e di diffusione.

José: Sì, perché così – grazie a questa sua funzione – l’intellettuale favorisce gli “scambi”. Cioè, non viene a dire agli operai cosa devono fare. Diciamo piuttosto che “mette insieme” le idee, le fa circolare. Scrive. Accelera gli scambi, la discussione tra la persone, dà impulso al dibattito su ciò che ci divide.

La conversazione verte principalmente sull’idea che non siano gli intellettuali a dover educare il popolo e i lavoratori alle loro battaglie e alle loro rivolte. José precisa da subito, con rispetto e fermezza, che le lotte operaie non hanno in odio né in antipatia il ruolo dell’intellettuale, soltanto – secondo la migliore tradizione maoista – questo “ruolo” non può essere (come succede invece quasi sempre oggi) completamente scollegato dalla realtà sociale e politica dello sfruttamento e del ricatto costante perpetrato attraverso il salario – e da quella che oggi chiamiamo la disciplina e la teologia autoimprenditoriali. Poco dopo Foucault passa invece a denunciare come, tra gli stessi sfruttati, sarebbe diffusa una pericolosa Sindrome di Stoccolma che porta a negare l’esistenza di un sapere autonomo e di una razionalità strategica autosufficiente della classe operaia (o come si direbbe oggi, dei lavoratori). Un discorso in cui possiamo vedere i germi del paradossale odio di sé che le classi popolari hanno sviluppato grazie all’espandersi dell’ideologia neoliberale, e che parallelamente in Italia Pasolini criticava disperatamente con la sua denuncia del “genocidio culturale” e della “mutazione antropologica”.

Foucault: Questo è molto importante per il movimento democratico, poiché – persino tra gli operai – ci sono dei pregiudizi molto in voga che recitano più o meno così: 1) Il solo sapere che conta è quello degli intellettuali, degli scienziati, cioè quello che appartiene a una certa classe sociale. 2) Non soltanto il sapere operaio non vale niente, ma – addirittura – gli operai stessi non sanno niente. E invece non soltanto il sapere operaio esiste, ma vale più di ogni altro. Certo, ha bisogno di essere elaborato, vagliato, trasformato. È ovvio, i lavoratori non sanno le cose così, di diritto, per scienza infusa. Ma si può dire questo: il sapere di un intellettuale è sempre parziale rispetto al sapere operaio, al sapere dei lavoratori. Ciò che noi sappiamo della storia della società francese è estremamente parziale rispetto all’esperienza massiva, diretta, che ne ha la classe operaia. Se un intellettuale vuole sapere cosa è successo nella società (cosa che, per altro, sarebbe il suo mestiere) è necessario che sia ben consapevole del fatto che il sapere “primo”, essenziale, non è nella sua testa, ma in quella della classi lavoratrici; come deve essere consapevole che esiste una autonoma razionalità del comportamento della classe operaia. Dopo il XIX secolo si è diffusa l’idea che i lavoratori siano tutto sommato “brava gente”, magari solo un po’ troppo impulsiva. Lo si legge continuamente nei testi dei borghesi dell’800.

José: Sono le stesse cose che dicono oggi i sindacati confederali…

Foucault: Sì. La burocrazia sindacale gira interamente intorno a questo tema: “gli operai sono bravi e buoni, ma non si può lasciarli fare”. Detto altrimenti: “hanno dei buoni sentimenti, gli operai, sono spontanei, ma non sono in grado di pensare con la propria testa, né di pensare a se stessi”. E invece guarda un po’: i lavoratori pensano, sanno, ragionano, calcolano. È da tempo ormai che hanno rivendicato, e ottenuto, il diritto di associarsi. Ma le vittorie non sono mai definitive. Ben presto infatti si è imposta una burocrazia sindacale, che ha posto come principio ai lavoratori di non pensare autonomamente, arrogandosi il compito di pensare e decidere al posto loro. La burocrazia sindacale ha confiscato il diritto degli operai al calcolo strategico, alla riflessione, alla decisione autonoma. In tal modo, questa burocrazia ha condannato se stessa a non poter essere altro che un freno all’azione operaia, spontanea o riflessa che sia. Ma quando si spacca in due l’esperienza dell’azione operaia autonoma, si sta già giocando un gioco che – alla fin fine – è quello dei padroni.

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File:La cause du peuple 8.jpg - Wikimedia Commons

Alla denuncia del sindacalismo “burocratico” (altra questione attualissma), segue un confronto sulle differenze “morali” tra classe dominante e classe operaia introdotto da un redattore di Libé (storico quotidiano francese, che nasce in questi anni proprio da una costola della Sinistra Proletaria). Il redattore di Libé fa una considerazione che indispone un po’ Foucault. Propone l’idea – effettivamente bizzarra – di una presunta “superiorità” morale della classe operaia, posizione paternalista e controproducente in cui si intravvedono già i tristi sviluppi di un moralismo pseudo-progressista che sarà il cancro della militanza di sinistra dopo la caduta del muro, e rispetto a cui sia Foucault sia José si mostrano non a caso decisamente freddi.

Redazione di Libération: Il pensiero operaio non è semplicemente un sapere nel senso tradizionale del termine. È un “pensiero” che ha i suoi valori. Se fai il paragone vedi subito che il pensiero borghese è nutrito da valori egoistici, mentre al contrario nelle pratiche quotidiane e nelle lotte del sapere operaio, puoi scoprire forme di auto-aiuto dal basso, di auto-formazione, di “fratellanza”. Gli operai dicono spesso che la fabbrica è per loro come una seconda famiglia.

Fuocault: Sì vabbé, ma siccome i mezzi di produzione sono nelle mani della borghesia, questi valori di cui tu [redattore di Libé] parli, questo pensiero autonomo dei lavoratori, non può ancora esprimersi. E da ciò deriva tutta una serie di equivoci. Gli intellettuali si fanno troppo spesso della classe operaia un’idea ricalcata a immagine dell’umanismo borghese a cui appartengono. Ma questo è semplicemente falso. Se guardi da vicino la classe operaia, diciamocelo, la prima cosa che salta all’occhio è che si tratta di una classe votata all’illegalismo: una classe strutturalmente “contro” la legge, per il semplice fatto che la legge è costitutivamente fatta “contro” di lei.

José: Quando dici “sono tutti votati all’illegalismo”, in un certo senso, sono d’accordo con te. Ma allo stesso tempo, devo anche dirti che gli operai hanno il senso della disciplina. Ci rivoltiamo contro i ritmi di fabbrica e di produzione, contro il lavoro, ma se uno di noi arriva troppo spesso in ritardo al lavoro, beh, non è ben visto dagli altri compagni. Inoltre, può capitare a volte che alcune “colpe” che il padrone imputa a un operaio siano considerate tali anche dai suoi compagni.

La conversazione si conclude infine su un tema delicatissimo, quello della disciplina e dell’autodisciplina, in cui si può gustare un esempio “pratico” della superiorità del sapere operaio su quello filosofico/intellettuale. Foucault cerca di far riflettere José sulla dimensione disciplinare della fabbrica, dimensione che José conosce molto bene. Ma al contempo José segnala a Foucault che non soltanto esiste, ma è addirittura necessaria, una forma di (auto)disciplina sul lavoro per condurre in modo vincente la lotta di classe. Foucault concorda, e la conversazione si chiude con una riflessione critica su come distinguere le forme di (auto)disciplinamento imposte dai padroni, dallo Stato e dalla Giustizia borghesi, da quelle che invece la classe operaia deve e vuole imporsi per arrivare a organizzare in modo vincente la propria lotta.

Foucault: Ma questa disciplina a cui ti riferisci, come dobbiamo intenderla? È semplicemente il risultato di una pressione esterna che, reiterata dal padrone nei decenni, è stata infine interiorizzata dagli operai, o e’ anche qualcosa d’altro? Si tratta solo dell’accettazione rassegnata di un’imposizione disciplinare esterna che gli operai subirebbero e scimmiotterebbero passivamente, o è anche una forma diversa, ulteriore, di auto-disciplina operaia che si impone trasversalmente a tutti i compagni al fine di perseguire una lotta comune? Mi pare che in fondo, nel senso in cui l’hai descritta, la disciplina a cui ti riferisci acquisti il valore di un senso di solidarietà collettivo. Questa disciplina della solidarietà è senza dubbio una cosa indispensabile affinché le varie lotte non si disperdano.

José: Io mi pongo questa questione: al di là della parte di solidarietà collettiva, qual è invece la parte di pressione [disciplinare] che ci viene imposta dall’esterno?

Foucault: La questione è quanto mai aperta. Se un operaio si azzuffa con un altro, se viene al lavoro sbronzo, se “ruba” la donna di un compagno, ci sono delle reazioni. Secondo me alcune di queste forme (auto)disciplinari provengono dall’esterno, nel senso che vi sono state “imposte”, mentre altre appartengono strutturalmente alla coscienza della classe operaia, e sono perciò da intendersi come suoi strumenti di lotta.

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