“Selfie” di Agostino Ferrente

di Francesco Ruzzier

Nella notte del 5 settembre 2014 Davide Bifolco, un ragazzo di 16 anni scambiato per un latitante, fu ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere nel quartiere Traiano di Napoli. Il progetto cinematografico di Agostino Ferrente parte da qui: da un fatto di cronaca assolutamente scioccante che diventa il punto di partenza per una riflessione su una periferia abbandonata a se stessa. L’intenzione del film non è quella di indagare sull’omicidio in sé, quanto piuttosto su come sia possibile che un ragazzo di 16 anni, senza precedenti penali, possa rimanere ucciso per non essersi fermato ad un controllo. Per provare a rispondere a questa domanda, Ferrente si affida a due ragazzi coetanei e dello stesso quartiere di Davide, dando loro un cellulare e chiedendogli di raccontare la loro amicizia, le loro abitudini e i loro sogni.

Ferrente prova in un certo senso ad annullare le barriere ed i filtri della macchina da presa, a sfruttare l’abitudine del raccontare la propria quotidianità sui social e l’immediatezza del selfie; a valorizzare la spontaneità di due protagonisti. Un cambio di prospettiva a portata di click, che segna il passaggio da uno sguardo che osserva (o da una soggettiva) ad un punto di vista che fonde il regista con l’attore protagonista, visione e fisicità.

Pietro e Alessandro sono due adolescenti semplicissimi: uno sogna di fare il barbiere, l’altro è contento di fare il barista. Non hanno nessun tipo di aspirazione cinematografica, ed è forse proprio per questo che il loro approccio al film appare assolutamente genuino e privo di sovrastrutture. I due riescono ad accompagnare lo spettatore all’interno della loro quotidianità con la massima naturalezza, raccontando senza alcun tipo di filtro e in maniera quasi inconsapevole la disperazione della realtà in cui sono immersi. Un’esistenza che appare segnata fin dal principio, schiacciata dalla presenza pressante della camorra, dall’assenza assordante dello Stato, dalla rassegnazione nel non poter cambiare le cose. Eppure Pietro e Alessandro provano continuamente a raccontare la possibilità di una via diversa, a mettere in scena una sincera voglia di sfuggire a un destino come quello di Davide Bifolco.

Ai selfie di Pietro e Alessando, Ferrente alterna immagini di telecamere di sorveglianza sparse per il quartiere; gli ambienti sono gli stessi, lo sguardo è ovviamente opposto. Al calore e all’ingenuità che contraddistinguono la visione del mondo dei protagonisti, troviamo contrapposto l’occhio freddo, meccanico e distaccato di uno Stato che osserva e controlla tutto, ma non è realmente presente in nulla. E allora il regista sembra volersi indicare allo spettatore la giusta prospettiva per capire la realtà fino in fondo: Selfie evidenzia quanto sia importante immergersi totalmente in un contesto per comprenderlo pienamente e quanto sia invece talvolta inefficace e limitante osservarlo freddamente dall’alto; il film di Ferrente dimostra in questo senso la rilevanza della scelta di un punto di vista sincero. Perché è forse la conoscenza l’unica via per poter migliorare una situazione disperata ed evitare che altri Davide Bifolco muoiano per un errore di valutazione.

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