Sovrappeso digitale: il morbo del prossimo secolo

di Livio Cerneca

Calvin Teng “Stillness” (2020)

Un ricercatore europeo si era stabilito per un periodo presso una comunità indigena di un arcipelago nell’Oceano Pacifico. Una mattina assistette alla conversazione tra una donna e suo marito.

L’uomo si doveva recare con la piroga su un’altra isola per comprare generi alimentari, e lei gli stava preparando la lista della spesa. L’isola era piuttosto distante, ci sarebbe voluto tutto il giorno per raggiungerla, fare gli acquisti e poi tornare indietro. Il sole ancora non scottava quando la piroga prese il largo, confondendosi tra le onde e le creste emergenti della barriera corallina.

Verso la tarda mattinata, il ricercatore vide la donna che si agitava, borbottava e imprecava. Le chiese cosa stesse succedendo, e lei gli disse che aveva dimenticato di segnare le uova sulla lista della spesa.

Il ricercatore tornò a riordinare i suoi appunti, ma dopo un po’ si accorse che la donna si era avvicinata a un grande albero, aveva appoggiato i palmi delle mani sul tronco e parlava da sola. Dopo che ebbe finito, si dedicò di nuovo alle sue faccende e sembrò più serena.

Incuriosito, lo studioso la raggiunse e si informò sullo strano rituale. «Ho solo chiesto a mio marito di prendere le uova» spiegò la donna, continuando a raschiare certe grandi foglie con cui stava confezionando una cesta.

L’europeo prese nota dell’episodio e, per il resto della giornata, non accadde niente di significativo. Al crepuscolo, con la brezza serale, arrivò la piroga. La donna andò ad accogliere il marito sulla spiaggia, insieme trascinarono in secca l’imbarcazione e scaricarono la merce.

Con la scusa di dare una mano, il ricercatore aiutò a portare i pacchi fino alle capanne e constatò che effettivamente c’erano anche le uova. Più tardi, approfittando di un momento di quiete dopo la cena, riuscì ancora a scambiare due chiacchiere con la donna e le domandò se davvero fosse riuscita a mandare un messaggio a suo marito appoggiando le mani sull’albero.

Abbassando lo sguardo imbarazzata, lei rispose: «Non abbiamo i soldi per comprare il telefono, dobbiamo arrangiarci come possiamo».

Questa storiella esce fuori ogni volta che gli antropologi si riuniscono per parlare di comunicazione e tecnologia. Non si sa se sia un reale aneddoto, la gustosa burla di indigeni col senso dell’umorismo o una brillante parabola sull’inconsapevolezza delle proprie capacità.

Siamo abituati a pensare che i dispositivi elettronici di cui ci serviamo ogni giorno per lavoro e diporto riescano sempre a offrirci indiscutibili vantaggi. Se la guardiamo solo da un punto di vista quantitativo, probabilmente è vero: maggiore velocità, più precisione, una grande mole di attività svolte in tempi ridotti, miniaturizzazione, capacità estesa di archiviazione, incremento della produttività e dell’efficienza.

È un bilancio che sembra splendidamente in attivo, ma un’analisi più profonda rivela pesanti perdite. Prima dell’immissione dei cellulari sul mercato di massa, era consueto che le persone conoscessero a memoria diverse decine, in qualche caso più di un centinaio, di numeri telefonici. A distanza di pochi decenni, siamo al punto che di numeri telefonici spesso non si riesce a ricordare neanche il proprio. La capienza della rubrica incorporata nel telefono che teniamo in tasca fa atrofizzare il nostro archivio mentale. Ma il prezzo da pagare non si limita a una riduzione “volumetrica”.

Nel corso di esperimenti eseguiti su lunghi periodi (alcuni anni), si è osservato che l’uso abituale di applicazioni che sfruttano il GPS – in particolare navigatori stradali e sistemi digitali di orientamento – provocano una sensibile perdita di memoria spaziale, il deterioramento delle mappe cognitive interiori e una maggiore difficoltà a registrare e organizzare i punti di riferimento.

Possiamo verificarlo direttamente chiedendo un’informazione topografica a qualcuno che passa per strada. Se ci rivolgiamo a un individuo giovane, a un nativo digitale, sarà molto probabile che, pur vivendo in quella città, non sappia indicarci come raggiungere la nostra destinazione se non tirando fuori dalla tasca lo smartphone e consultando un’app di navigazione.

In scala ridotta, la stessa cosa avviene quando, invece di voler raggiungere un luogo fisico, intendiamo accedere a determinate informazioni. Leggendo un giornale cartaceo, ci troviamo di fronte a uno spazio delimitato in cui sono disseminati punti di riferimento – titoli, immagini, sommari, catenacci – che sorvoliamo liberamente con lo sguardo prima di decidere dove fermarci e addentrarci nella lettura dell’articolo completo.

Sfogliando un medium online non riusciamo a ottenere la stessa panoramica. Anche se i punti di riferimento sono simili, la selezione avviene facendo scorrere in verticale un set di notizie che spesso sono già in qualche misura state scelte per noi in base a nostre preferenze precedenti. Lo sguardo non sorvola con un’occhiata simultanea i contenuti disponibili, ma segue un flusso bidirezionale, su è giù, avanti e indietro.

Non solo la ricerca, ma anche la creazione stessa e l’elaborazione delle informazioni tende a impoverirsi quando ci si affida alle tecniche di automazione. Le agenzie di stampa e le redazioni digitali stanno già utilizzando programmi in grado di creare contenuti originali a partire da poche parole chiave. Sono poi a disposizione anche sistemi elaborativi che, da un testo lungo e complesso, possono ricavare un riassunto abbastanza verosimile. La qualità complessiva degli scritti che escono da queste fabbriche virtuali di frasi e paragrafi forse non è ancora al livello di quella che può ottenere il prodotto di una mente interamente biologica, ma è solo questione di tempo.

Si potrebbe immaginare a questo punto che a essere penalizzati dall’invasività tecnologica siano soprattutto coloro che eseguono prestazioni di carattere astratto e intellettuale. Invece ha ripercussioni importanti anche in lavori tradizionalmente manuali. Più le macchine e i software sono smart, meno diventiamo capaci di trovare soluzioni e risolvere problemi.

Nel settore impiantistico e, in generale, in ogni applicazione dove i sistemi informatici sono impiegati per garantire il funzionamento e la regolazione di parti meccaniche ed elettriche – dagli elettrodomestici ai mezzi di trasporto, dalle catene di produzione industriale alle reti informatiche stesse – si assiste a una progressiva diminuzione nell’abilità degli addetti alla manutenzione di individuare i guasti. I macchinari sono infatti in grado di eseguire accurate autodiagnosi e indicare all’operatore le possibili cause di un malfunzionamento e le azioni correttive da intraprendere.

A volte, la fiducia riposta nella capacità della macchina di analizzare se stessa è tale da convincere gli addetti che, se essa non funziona e non viene segnalato alcun codice di errore, la colpa sia proprio del sistema che sovrintende la diagnostica, il che non è sempre vero.

Se allora cala l’abilità di produrre pensiero e di esporlo, il senso dell’orientamento si indebolisce, e persino i lavori fisici scontano il sovraccarico di sofisticazione elettronica, potrebbe restare la speranza che almeno la sfera emotiva e affettiva sia risparmiata. Ma non è così.

Chiediamo supporto alla tecnologia anche per le attività prettamente emozionali. Ad esempio, tra le tante app che cercano di sostituirsi all’intuito, alle vibrazioni sottili e senza nome che connettono tra loro gli esseri umani, ce n’è una che, grazie all’intelligenza artificiale e a un database con più di 1500 registrazioni audio di bambini che piangono, esegue una comparazione analitica e indica ai genitori il tipo di pianto dei neonati e le corrispondenti cause (fame, dolore, paura, ecc…).

L’eccesso di risorse alimentari e uno stile di vita in cui ogni attività fisica è facilitata da mezzi automatici motorizzati atrofizzano la muscolatura, la rendono meno elastica e reattiva e favoriscono l’insorgere di una delle patologie più insidiose dei nostri tempi, l’obesità.

Non si sa ancora quale nome avrà la malattia tipica del prossimo futuro, ma sarà causata dalla sovrabbondanza di informazioni e dalla difficoltà di sobbarcarsi sforzi mentali e creativi. Come l’obesità, anche questa nuova condizione morbosa ci intorpidirà i sensi e renderà il nostro cervello lento, goffo e affaticato.

Immaginare di fermare lo sviluppo tecnico, di frenarlo o di farlo arretrare non è realistico, e non avrebbe neanche senso. Ma decidere di rinunciare, almeno in parte, alla tecnologia non strettamente indispensabile migliorerebbe le nostre capacità cognitive.

Forse non fino al punto di trasmettere messaggi a distanza posando le mani su un albero, ma riguadagnare l’ingegno quotidiano, pratico e analogico, delle generazioni che ci hanno preceduto sarebbe già un buon risultato; un rigoroso regime dietetico che potrebbe aiutarci a restare in contatto con noi stessi, coi nostri limiti e le nostre potenzialità.

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