“Spettri” di Ibsen: il dolore muto della solitudine

di Francesco Bercic

Un urlo a squarciagola, accompagnato da una musica altrettanto invadente, apre gli Spettri di Ibsen, nel sabato sera del Rossetti che registra sempre un ottimo numero di presenze. Nell’atmosfera cupa e plumbea che rimarrà il contorno della scena per tutta la durata dell’opera, emerge con vividezza il candido vestito di Regine (Eleonora Panizzo) stesa a terra scomposta e intenta, mentre recita un già straziante monologo, a ricomporre i cocci di un vaso spezzato. Sembra riuscirci; alcuni pezzi combaciano, poi, improvvisamente, la rottura. Entra sul palco Engstrand (Giancarlo Previati): si intuisce che sia stata proprio la sua irruenta presenza a rovinare i piani della ragazza. Engstrand, il (presunto) padre di Regine. Il colpevole.

È essenzialmente il rapporto padre-figlia, o più in generale genitori-figli, il protagonista di questa breve – un’ora e mezza di intenso spettacolo – e tarda produzione di Ibsen. La rottura del vaso, soprattutto l’impossibilità di ricomporlo, sono chiaramente metafore di relazioni travagliate se non cancerogene; che entrano pian piano nei personaggi e nelle sensazioni del pubblico, per non lasciarli mai, espandendosi con ritmo lento ma inesorabile.

Si potrebbe cercare di barcamenarsi negli intrighi che gradualmente vengono svelati. Si potrebbe concentrare l’attenzione sui dettagli di passioni incestuose, su accuse infondate e parossistiche mitomanie. Sono nient’altro che i tratti tipici di una famiglia “borghese”, dove però il termine merita una precisone. Non c’è, in Ibsen, nessuna politicizzazione pseudo-marxista, men che meno un’analitica disamina connotata con precisione nell’Ottocento europeo. C’è, soltanto, una ferrea volontà di scavare nella psicologia di uomini impotenti, mai all’altezza del compito, inadeguati davanti alle resposabilità della vita – come ricorda nelle sue litanie il pastore Manders (Fabio Sartor, di gran lunga l’attore più in parte). Insomma, quello di Ibsen, più che dramma “borghese” (come spesso viene additato), è una tragedia esistenziale.

E quindi: dove conduce l’indagine? Chi sono gli “spettri”? “Un padre non muore mai”, dice con fermezza il sentenzioso pastore. Ma, ancora, non è certo un padre inteso nella sua fisicità e nella sua “realtà” ciò cui allude Manders. Basti guardare lo sfondo sul quale si muovono tutti i cinque attori: uno specchio che li deforma, mostrandoli come macchiette grottesche, caricaturali. Sono, appunto, figure spettrali, ombre di rancori e odio.

L’emblema dell’aridità che li divora è tutto nel lungo e inframmezzato dialogo fra il figlio Osvald Alving (Gianluca Merolli) e la madre Helene (Andrea Jonasson). A una morbosa richiesta d’affetto, Osvald alterna le lacrime di chi si sente abbandonato, escluso. Ancora: impotente. Come la madre: che nulla può, neanche dinanzi alle sue spasmodiche esaltazioni. Non c’è filtro che consenta almeno un abbozzo di comunicazione, di dialogo. Al ritmo cantilenante di musica classica si sostituisce un silenzio che dire assordante pare poco.

Infine, la vittima per eccellenza, sulle cui spalle ricadono i “peccati del padre” come già sapevano i profeti veterotestamentari: ecco che Osvald si inginocchia, chiede perdono, sì, proprio lui che avrebbe in apparenza tutte le ragioni per condannare, per incolpare. Il pastore, Regine, Engstrand, pure la madre: tutti lo circondano meditabondi e esterrefatti nella sua umiliazione.

È l’umiliazione di Ibsen, quella che si nasconde nel gesto pietoso del figlio. Una consapevolezza estrema, ai limiti della follia (“sono malato, angosciato” dice sbraitando, prima di danzare e rotolare per terra). Una certezza muta: che non afferma nulla, se non lo straziante spettacolo che ha già offerto in un’ora abbondante di recitazione. Di nuovo, nessuno capisce Osvald, e probabilmente nessuno capisce il dolore di Ibsen: è un’immensa solitudine il morbo che lo uccide.

La genuflessione che compie, con compassionevole complicità, è la rinuncia di chi non conosce più la “gioia di vivere”; e non ha nemmeno qualcuno con cui sfogarsi, che accolga il suo estremo lamento, che comprenda la sua sfida ultraterrena. Il “Sole”, questo infatti chiedeva Osvald, una stella che nella Norvegia di Ibsen non scalda, forse non ha mai scaldato; una confessione che commuove, e davanti alla quale le parole non bastano più.

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