Sulla nostra pelle. “Cum patior”

di Francesca Ruina

La “compassione” (dal latino cum patior, patire insieme) non è la “pena” (dal latino poena, castigo, ammenda): non è uno sguardo che separa un Io integro da un altro in frammenti, che divide un osservatore innocente da un soggetto in declino in quanto supposto colpevole. Nella compassione questa distinzione crolla, il concetto di colpa svanisce, sostituito da un profondo e indicibile senso di umanità che accomuna le parti, che ci rende tutti ugualmente fragili, scoperti e nudi.

Nudi. È così che ci si sente a guardare Sulla mia pelle, la coraggiosa impresa cinematografica di Alessio Cremonini, che ha messo in scena l’ultima agonizzante settimana di vita di Stefano Cucchi – nel film eccezionalmente interpretato da Alessandro Borghi –, ragazzo poco più che trentenne morto in carcere nel 2009 a causa dei pestaggi subiti da parte delle forze dell’ordine. Pestaggi, quelli che scavano il corpo di Cucchi imprimendogli il marchio della morte, su cui la (presunta) giustizia sta ancora indagando, intrappolata nella macchina kafkiana dei processi e dei rinvii, mentre il cadavere di Stefano attende la pace da ormai quasi dieci anni e i nomi dei suoi carnefici si nascondono dietro le prassi, le procedure, l’omertà di chi ha fatto finta di niente durante il suo calvario.

Nel film si agonizza con lui nel buio delle celle – l’oscurità caratterizza significativamente la gran parte delle scene – e si riesce quasi a percepire il freddo, la sensazione delle coperte ruvide sulla pelle sfregiata. Sembra Guantánamo e invece è Regina Coeli, sembra la preistoria e invece è il 2009. È un tempo che si dilata, uno spazio che si restringe attorno alle ossa sempre più sporgenti di Stefano, attorno all’impotenza dello spettatore, che sa già come andrà a finire eppure non riesce a darsi pace. Perché quello che Cremonini rende magistralmente in questo film non è, come sarebbe stato più semplice e più ad effetto, la violenza – che viene, anzi, chiusa all’interno di uno stanzino e di cui vediamo solo le conseguenze dipinte sul volto tumefatto di Cucchi; quello che è intollerabile, che nausea, che fa sì che sia pressoché impossibile guardare questo film senza piangere, è il non senso, la profonda disumanità che non riguarda solo gli aggressori, ma tutto il sistema che è ruotato intorno a Stefano durante quell’interminabile settimana di prigionia. È il giudice che finge di non accorgersi dei lividi che ricoprono il volto del ragazzo, sono i secondini che lo prendono in giro, i medici che sembrano non accorgersi della gravità delle sue condizioni di salute, i genitori che vengono tenuti a distanza e che scoprono della morte del figlio solo attraverso una notifica per l’autopsia.

La potenza di questo film sta nel non dividere il mondo tra buoni e cattivi, vittime e carnefici, come invece sarebbe stato più facile, vista anche la grande attenzione mediatica che ha riguardato questo caso negli ultimi anni. La pellicola invece non mostra Stefano come un poverino senza colpe e i suoi aggressori come feroci criminali con la bava alla bocca. Stefano non è dipinto come un santo per il semplice fatto che non lo era: era effettivamente uno spacciatore, reato di cui era accusato e per il quale si era proclamato innocente; aveva commesso degli errori e doveva pagare. Ma non con la vita. Non ucciso da una giustizia che avrebbe dovuto riabilitarlo. Cremonini restituisce a ciascuno le proprie responsabilità, a Cucchi come a tutto il parterre che lo circonda; in questo senso il taglio della pellicola fa il contrario dell’operazione della giustizia italiana, che non ha fatto altro che assecondare la de-responsabilizzazione, o meglio, il differimento delle responsabilità soggettive, coprendo, di fatto, quel dispositivo di potere che tutto può, la Legge senza legge. Il film – che si basa sullo studio di circa 10.000 pagine di atti processuali – riproduce fedelmente quanto accaduto in quei giorni, fotografando un universo, o per meglio dire, uno Stato di colpevoli, che si rimbalzano vicendevolmente la responsabilità per ciò che è successo, nascondendosi dietro ai ruoli e ai doveri – proprio come le SS quando uccidevano perché “faceva parte del loro lavoro”.

Quello che devasta in questo film e più in generale nella vicenda di Cucchi è la mancanza di compassione, nel senso etimologico prima citato. L’incapacità di provare dolore dinnanzi a un ragazzo – qualunque siano la sua storia e le sue colpe – che agonizza in una cella al buio, solo ed evidentemente sofferente. Com’è possibile girarsi dall’altra parte, non fare niente, lasciarlo lì? Come si può sostenere quel vuoto, quel silenzio? E magari anche infierire. Dov’è finita l’umanità? E che ruolo abbiamo noi, spettatori di questo film e di questo mondo? Queste le domande che si impastano alle lacrime che scorrono copiose davanti all’agonia di Stefano, questi gli interrogativi senza risposta che si stagliano sull’eco del suo silenzio, dei suoi singhiozzi, dei suoi appelli inascoltati.

Vorrei chiudere con un’ultima riflessione circa il clamore suscitato dalle proiezioni “pirata” che si sono susseguite in moltissime piazze italiane nei giorni immediatamente successivi all’uscita del film. Se da un lato è corretta la critica mossa a queste proiezioni pubbliche per via del fatto che non pagare un biglietto a quei pochi e coraggiosi cinema che hanno acquistato la pellicola significa ridurre la possibilità che film di questo tipo possano in futuro venire nuovamente prodotti, dall’altra ritengo di fondamentale importanza ciò che è avvenuto in questi giorni nelle piazze italiane. Centinaia di persone si sono riunite spontaneamente per condividere – ecco, finalmente il cum patior – la visione di questo film, che è davvero un film che è non soltanto bello, ma direi necessario guardare insieme. Stare spalla a spalla con degli sconosciuti, scomodamente accovacciati l’uno a fianco all’altro sul cemento delle strade, ed accorgersi di come le lacrime del vicino siano le stesse che bagnano la mia pelle – che all’improvviso diventa la nostra pelle. Essere tutti lì insieme, testimoni di quella disumanità, vuol dire tentare di creare una nuova umanità, un’umanità capace ancora di compassione, di vicinanza, di aiuto reciproco. Che questo film possa davvero restarci sulla pelle, quella pelle che, come scriveva Paul Valéry, è ciò che l’uomo ha di più profondo.

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