Ti scrivo per non dimenticarmi. Lettera ad Aylan

di Andrea Muni

aylan

Ciao Aylan, ovviamente faccio solo finta di scrivere a te, e so bene che avresti capito perfettamente – nonostante i tuoi tre anni – che spesso si dicono cose alla mamma solo per farle sentire al papà. Faccio finta di scriverti con il senso di imbarazzo e di inadeguatezza di chi rischia di sembrare soltanto qualcuno che brandisce, una volta di più, l’immagine del tuo corpicino che giace spugnoso sulla spiaggia con l’unico, sgradevole scopo di spargere al vento le solite quattro cazzate attraverso cui ci si mette a posto la coscienza e ci si protegge, con lo stesso gesto, dall’orrore che ci assale ogni volta che quel mondo degli altri (sempre così distante, ma sempre più vicino) ci penetra e ci viola, fosse anche soltanto sotto forma di un’immagine o di parole al vento. Ma credimi, non è per narcisismo che mi immagino di scriverti, quel che vorrei fare è restituirti – in maniera invertita – il messaggio che la tua morte muta e il tuo corpicino spugnoso per le ore passate nell’acqua salata mi hanno involontariamente inviato. Come un messaggio nella bottiglia, per giorni e giorni l’immagine del tuo corpicino ha vagato per il mondo, e in molti hanno persino sperato che potesse servire a qualcosa; in molti hanno osato sperare che la mondializzazione dell’immagine del tuo piccolo cadavere potesse davvero servire a qualcosa. Non è così, non sarà mai così, niente dell’ordine delle emozioni entra nelle scelte politiche che i governi europei – anche quelli apparentemente più “accoglienti” – hanno fatto negli ultimi mesi.

Se fossi arrivato nel nostro mondo Aylan, se avessi potuto crescere tra noi, avresti scoperto che qui ci sono solo due tipi di persone: quelli a cui non importa nulla del dramma umano e politico in cui un intera parte del mondo sta agonizzando da ormai quindici anni, e quelli a cui importa troppo. Si fanno la guerra, questi due tipi di persone, perché si amano, e si odiano, qui, nel nostro mondo. Sono arrabbiati gli uni con gli altri. Quelli a cui non interessa l’orrore che tu e la tua famiglia avete subito non sono davvero disinteressati e insensibili a quello che vi è successo, vogliono sembrarlo perché sono in guerra, qui, nel nostro mondo, con quelli a cui importa troppo del vostro dramma; quelli a cui importa così tanto da far sorgere a quelli a cui non importa il sospetto che ci sia dietro qualcosa d’altro.

Non c’era niente di così bello qui, sai, solo noi non abbiamo la guerra, e questo di certo fa una gran differenza; noi possiamo permetterci di farla a casa vostra, la guerra, raccontandoci che vi aiutiamo, che veniamo a portare la civiltà e tutte quelle balle a cui per fortuna stiamo smettendo di credere.

Molte persone – non è il caso tuo e della tua famiglia – vengono qui da molto lontano perché credono che qui ci sia la felicità. Ma questo non è vero o, meglio, la felicità c’è anche qui, ma come c’è in ogni luogo in cui non ci sia guerra e le persone abbiano di che guadagnarsi da vivere quel poco che basta per essere felici insieme, con la loro famiglia, con i loro amici, nella loro cultura. Forse mi risponderesti che, ormai, anche se noi qui sembriamo non accorgercene, i posti in cui la guerra non c’è sono sempre di meno, e avresti ragione. Tanti bambini come te, ma che diversamente da te sono ancora vivi, si immaginano il nostro mondo come un mondo fatato, un mondo in cui i sogni e i desideri si realizzano. Anche se so che, purtroppo, questo non può più farti sorridere, vorrei dirti che la cosa da ridere è che non solo i sogni e i desideri di questo mondo non si realizzano se non a discapito di altri sogni e di altri desideri, ma che addirittura i nostri sogni e i nostri desideri, qui, sono prodotti in serie da una macchina – molto evoluta e piena di opzioni – che, quando parliamo con le altre persone, chiamiamo “io”.

Non è vero Aylan che non hai perso molto morendo annegato a tre anni, hai perso tutto. Hai perso la vita, quella vita che molti di noi – in questo mondo dei sogni – non riusciranno mai a vivere, nemmeno se arrivassimo a novant’anni. Hai perso una vita che non sarebbe stata facile, una vita da immigrato, una vita da straniero, una vita con la tua famiglia. Quella famiglia attorno a cui ti saresti stretto mille volte per cercare di capire – un volta diventato più grande – perché non ti riconoscevi completamente in quei sogni e quei desideri che sono i nostri, o da cui magari invece saresti fuggito perché, crescendo, avresti odiato delle radici culturali in cui non ti saresti più riconosciuto. Hai perso degli amici, che avresti sentito vicini in questa sorta di costante sensazione di mancata appartenenza che, credimi, non appartiene più solo agli emigranti, ma è una condizione tristemente e politicamente strutturale del mondo globalizzato in cui viviamo, e in cui siamo destinati sempre più a giocare contemporanemente la parte delle vittime e dei carnefici. O forse, ti saresti integrato perfettamente e avresti sfrecciato su una macchina sportiva usata, con un tatuaggio tribale sul braccio, ascoltando hip hop a tutto volume. Invece hai perso tutte le opzioni.

Ma anche noi ti abbiamo perso Aylan, avresti forse insegnato ad alcuni – tu che ne hai fatto l’esperienza prima ancora di poterti chiamare “Io” – che quando non si ha più niente, quando non si hanno più soldi, sogni, aspettative, desideri (perché quelli che noi, qui, chiamiamo desideri non sono altro che le nostre aspettative), le persone, i loro volti, il loro gesti, e persino il loro odore ci vengono incontro con un colore differente da quello che gli vediamo dipinto sul volto quando crediamo ancora che potrebbero portarci via qualcosa. Avresti potuto insegnare ad alcuni di noi che una famiglia – in tutte le culture del mondo tranne che nella nostra – non è qualcosa come un super premio di produzione che ci si “concede” dopo aver eseguito ordinatamente tutti i compiti di quella macchina, l’“io”, che scandisce il ritmo illusorio delle nostre nevrotiche soddisfazioni/frustrazioni, ma è piuttosto un gruppo di persone che affrontano la vita e i suoi pericoli assieme, che non si abbandonano quando il pericolo o la paura abbaiano alla porta, un gruppo di persone che possono trovare il coraggio di osare dire – in faccia al discorso e al pensiero unici che perseguono l’iperindividualizzazione degli esseri umani, solo per poterli meglio governare – “noi siamo un’altra cosa”, “noi l’abbiamo fatto”, “noi l’abbiamo vissuto insieme”, “noi sappiamo che ci sono altre ‘realtà’, altre ‘gioie’, altre ‘soddisfazioni’, altre ‘verità””… le abbiamo costruite, inventate, patite, insieme.

Se fossi sopravvissuto a quella traversata, Aylan, avresti forse vissuto abbastanza per vedere il nostro mondo dopo l’Occidente. L’Occidente si sta sgretolando, cade, cola, come pezzi di intonaco dal muro, è conquistato, deformato, violentato, ormai irrimediabilmente trasfigurato, dallo stesso ritorno di fiamma della propria compiuta colonizzazione planetaria. Ne verranno altri di mondi, presto, tornerà un tempo delle decisioni epocali, sulla vita e sulla morte – come quella di tuo padre. Un mondo forse più grezzo, più ignorante, più giovane, più allegro, più familiare alla morte, alla violenza (e persino a quella che noi, oggi, chiamiamo follia), ma non per questo necessariamente un mondo più malvagio; un mondo abitato da persone che hanno pagato e sofferto altissimi prezzi soltanto per far vivere, sopravvivere e proteggere le proprie famiglie (intese, in senso lato, come quegli sciami di “noi” che soli possono combattere la io-crazia). Questo mondo resterà il nostro mondo, ma forse non sarà più dominato da quelli che – fomentando da dietro le quinte dello spettacolo la guerra da cui fuggivi e tutte le altre guerre – giorno dopo giorno si infrolliscono nel benessere, nei piaceri, nelle stanze dei bottoni, mentre si riempiono la bocca di parole come “umanità” e “civiltà”. Ogni giorno che passa, anche se non li vediamo, sappiamo che sono più deboli e più spaventati, terrorizzati, quasi invidiosi di non sapere cos’è la vita al netto di quella macchinetta che, quando parlano, chiamano “Io”. Tu non ce l’avevi ancora Aylan, quella macchinetta, non credevi ancora di esserla, e questa è davvero l’unica cosa che – nella tragedia immane che ha colpito te e la tua famiglia – non è un peccato che abbia tu perso.

Ti scrivo per non dimenticarmi, ma non per non dimenticarmi di te, che non ho mai conosciuto, tranne che per il fatto che mi sei entrato negli occhi e non ne uscirai mai più; ti scrivo proprio per non dimenticarmi di me, di me di fronte all’immagine del tuo corpicino che, come un messaggio nella bottiglia, vaga per il mondo fin dentro agli occhi di ogni persona che la incrocia come un messaggio vuoto, una domanda d’aiuto inarticolabile, fuori tempo, che fa venire voglia di dirti qualcosa, di fare qualcosa, come se questo potesse svegliarti. Un controtempo che ormai, almeno, può forse servire a ricordarci fino a che punto ogni più minuto e banale gesto delle nostre quotidianità si rifranga in incalcolabili microeffetti politici, e che – anche se potrà apparire banale, me ne sabatto, perché è vero – a volte un sorriso, persino un sorriso “ipocrita”, un sorriso che maschera una paura, o l’impossibilità stessa di comunicare e di capirsi – se quel che ti manca è un “noi” – può saziarti più di un piatto di pasta (persino quando sei davvero affamato, persino quando non hai una casa, persino quando sei straniero).

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