Trieste Film Festival 34: un racconto di confini tra passato e presente

di Leonardo Sica

Individuando nei Balcani e nell’Europa Centrale il suo epicentro narrativo, il Trieste Film Festival, giunto quest’anno alla sua trentaquattresima edizione, non può fare a meno di raccontare, a partire dal 1989 – anno della caduta del muro di Berlino – confini, divisioni e barriere, siano essi fisici, etnici o mentali.

Considerato il momento storico, la situazione in Ucraina non poteva che interpretare un ruolo di primo piano nella rassegna di quest’anno. Il Festival, da sempre attento a ciò che accade in quest’area (il controverso Donbass di Sergej Loznica è stato proiettato nell’edizione del 2019), ha voluto dedicare quest’anno alle registe ucraine la sezione “Wild Roses”, tradizionalmente concentrata sulle produzioni femminili europee.

Poiché dall’invasione russa di febbraio 2022 la produzione cinematografica ucraina è sostanzialmente ferma, i film presentati in concorso vivono e raccontano gli effetti del dilaniante e fratricida conflitto nel Donbass che continua, più o meno dimenticato, dal 2014.

Se è vero, come disse lo scrittore bosniaco Ivo Andric, che la prima vittima della guerra è la verità, fortunatamente il cinema, essendo per sua stessa natura una grandiosa bugia, si rivela anche in questo contesto un formidabile mezzo di espressione. È tuttavia possibile suggerire che ad essere invece a rischio in tempi di guerra sia la sopravvivenza, nel cinema e nella comunicazione più in generale, di sfumature e tonalità.

Le immagini che ci arrivano dall’Ucraina in quest’edizione sono sì spigolose e dure, ma espressione di un punto di vista prevalentemente femminile deciso e risoluto, che punta a sottrarsi a narrazioni tradizionali e ad imposizioni di ogni sorta.

In Klondike, diretto da Maryna Er Gorbach, entriamo nella vita di una giovane coppia in attesa di un figlio attraverso la voragine creata nelle mura di casa da un colpo d’artiglieria partito per errore. Sullo sfondo della tragedia dell’abbattimento del volo MH17, non è possibile sfuggire all’assurda violenza che piove letteralmente dal cielo in questi aridi e immutabili paesaggi della regione del Donbass. Orizzontale e opprimente anche nella fotografia, questo film fa percepire l’angoscia e la frustrazione della protagonista che si ritrova a lottare, o perlomeno a sopravvivere, in un mondo messo a ferro e fuoco da una violenza dipinta come infantile e maschilista, per custodire la luce della vita che porta in grembo.

Un ulteriore esempio di coraggiosa ricerca autocritica è rappresentato da Butterfly vision di Maksym Nakonechnyi. Lilia, membro delle forze speciali ucraine di rientro nella sua città dal fronte del Donbass, è la protagonista di questo lungometraggio: le cicatrici della guerra, gli incubi, il clima galvanizzato che regna nel paese rendono il ritorno alla normalità una mera utopia. La scoperta di una gravidanza, probabilmente nata da una violenza, aggiunge drammaticità al racconto ma porta anche la protagonista ad una fondamentale decisione: tenere il bambino contro ogni avviso, interpretabile forse come un messaggio di autodeterminazione e bisogno di futuro.

La naturale concentrazione sul presente e le speranze e i sogni per il futuro sembrano lasciare al buio tutto ciò che è venuto prima, il passato. Ecco che allora il fascio di luce del proiettore si rivela nell’atto di attiva esplorazione della memoria, personale e collettiva, attraverso due mirabili esempi: il cortometraggio L’estate è finita – Appunti su Furio di Laura Samani (premiata al Festival per Piccolo Corpo) e Love is not an Orange, documentario curato da Otilia Babara.

Quest’ultimo ritrae lucidamente una generazione di donne moldave emigrate in Europa negli anni Novanta alla ricerca di fortuna, attraverso la riscoperta e valorizzazione dei video familiari d’archivio che figli e parenti in patria spedivano loro in cambio di doni e cibo.

Laura Samani intesse invece la sua narrazione, un delicato racconto di vita e d’amore, facendo propri i video amatoriali di vacanze raccolti e organizzati dalla Mediateca FVG, consegnando un messaggio intimo e al tempo stesso universale: quando si è perduto qualcosa, è necessario percorrere la strada a ritroso, cercando con attenzione ciò che abbiamo smarrito o dimenticato, per poter tutto ricordare, per poter tutto dimenticare.

Mettere insieme i pezzi, i racconti, le persone è un esercizio che forse questo Festival ci invita a fare: conciliare la necessaria memoria del passato con i contrasti del presente e le speranze del futuro. Viene alla mente pensando a quest’apparente torsione la figura mitica del Giano Bifronte, capace di vedere passato e futuro nel medesimo momento, simboleggiante peraltro l’inclusione, l’apertura delle porte e al tempo stesso la chiusura e la guerra.

Bordi e confini arrivano ad assumere connotati metacinematografici nel film Gigi la Legge, premiato al festival di Locarno e presentato fuori concorso da Alessandro Comodin. Ci ritroviamo a seguire le peregrinazioni del vigile Gigi nel paesaggio omogeneo di San Michele al Tagliamento tra indagini inconcludenti e chiacchierate con colleghi in pattuglia.

Seguendo l’apparente solidità di una figura spiritosa, curiosa e affascinante ci si ritrova senza accorgersene in una selva fitta e oscura, popolata da figure al confine tra la realtà e l’immaginazione, delimitata da barriere di fitto fogliame o fasci di binari, che danno luogo a sinistre prospettive.

Tutto ciò che avviene durante il film, un suicidio lungo la ferrovia, un flirt con una collega, un’accesa discussione con il vicino, accade fuori dall’inquadratura: c’è sempre un ostacolo che impedisce la vista, una barriera che fa dubitare dell’effettiva realtà di ciò che sta accadendo.

La ricerca ostinata, le ossessioni fondate sul nulla fanno di Gigi un detective selvaggio, che ritrova la sua poetica nel fuoricampo. Frammentario e continuo al tempo stesso, la percezione di mancanza di unità e consequenzialità portano ad un certo punto a nutrire un certo pessimismo e diffidenza verso Gigi stesso e il mondo che lo circonda, salvo poi riuscire ad intravedere, grazie ad un miracolo in cui non si sperava più, che è dietro queste barriere che spesso si nasconde quanto di più prezioso una persona custodisca.

Ben più reali e materiali sono invece i confini della frontiera orientale d’Europa, fatti di filo spinato e discriminazione etnica e religiosa. Racconti di razzismo e intolleranza trovano infatti voce nelle pellicole che anno dopo anno vengono presentate al festival, espressione delle criticità che in questi luoghi non accennano ad essere risolte.

Deve compiere un viaggio a ritroso nella memoria e nel proprio passato il protagonista di Zbudi Me (Svegliami), lungometraggio presentato dal regista sloveno Marko Santic. Risvegliatosi in ospedale dopo un incidente in uno stato di quasi totale amnesia, Rok riscopre lentamente la sua vita violenta, fatta di odio, di lontananza dalla famiglia e di inettitudine. Diventa l’occasione per rivalutare tutta una serie di scelte e certezze, per risvegliarsi appunto da un torpore obnubilante che spesso solo una riflessione critica e consapevole può dissipare.

Dove tutti immaginano confini fatti di reti metalliche e mura di cemento, la regista albanese Evi Gjoni nel cortometraggio Sheets ci pone invece davanti all’immagine, apparentemente familiare e confortevole, delle lenzuola bianche appese ad asciugare nel giardino di casa.

In una società distopica schiacciata da un regime autoritario, dove prevale la diffidenza e il timore verso tutto ciò che sta fuori, stranieri, malattie, terroristi, ecco le lenzuola bianche stese all’esterno nascondere alla vista tutto ciò che non si vuole vedere, come un velo imposto tra la realtà e la percezione. Confini di cotone, che segnano il limite tra coraggio e conformismo, li vedremo nella conclusione vacillare, gonfiati da una ventata di imprevista ingenuità e purezza: riusciranno a cadere e a svelare quello che c’è dietro?

Un film emblematico di questo festival, seppure non in concorso, che certamente è in grado di far cadere ogni ipotetico velo di ipocrisia è stato Trieste è bella di notte (Calore, Collizzolli, Segre). Attraverso interviste e immagini riprese lungo la rotta balcanica, questo documentario minimalista lascia che i fatti parlino per sé. Dopo un percorso lungo e pericoloso, l’improvvisa apparizione notturna di Trieste scendendo dal Carso riempie di meraviglia quanto la California delle rotte migratorie raccontate da Steinbeck. Anche in questo caso la bellezza è però effimera: respingimenti e “riammissioni informali” sono i termini contro cui si infrangono le speranze dei protagonisti voce di questo racconto.

Al termine della proiezione, in una sala ancora sgomenta e attonita, Ismail, uno dei protagonisti della narrazione, sale sul palco, si siede e inizia a suonare con il suo sitar una melodia senza tempo. Ci ritroviamo immediatamente proiettati intorno a un fuoco, in una baracca mezza abbandonata sui monti sopra Bihac in Bosnia, dove uomini in fuga dalla loro terra immaginano come sarà arrivare: parlano di speranza, di famiglia, di amici più avanti lungo la rotta, di quelli rimasti a casa e di quelli lasciati indietro, di chi ce l’ha fatta e di chi no.

Davanti all’evidenza che passato e futuro, pregiudizio e accoglienza, menefreghismo e umanità si incontrano qui, ora, a pochi chilometri di distanza, la sala stracolma del Teatro Miela si scioglie in una commossa standing ovation quando i protagonisti salgono sul palco.

Confini mentali, amnesie su diritti umani, becere chiacchiere da bar e vite troppo impegnate per vedere cosa accade in Ucraina, intorno a noi, sulla rotta Balcanica, nelle comunità LGBTQ+, nelle minoranze di tutto il mondo: attraverso racconti di realtà e finzione, questo tipo di cinema è capace di gettare un seme in grado di smuoverci dall’apatica normalità dei telegiornali, dalle piattaforme streaming e dal loro anestetico intrattenimento, e per questo dobbiamo ringraziare la voce intensa di questi giovani registi, tutte le persone che con passione si dedicano a quest’arte e, naturalmente, preziose parentesi di resistenza culturale come il Trieste Film Festival.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Ti potrebbe interessare