Chiude l’area a caldo della Ferriera. Ecologia e cittadinanza

di Barbara Belluzzo e Andrea Rodriguez

(fondatori del Comitato 5 Dicembre)

È paradossale assistere alla fine dell’area a caldo della Ferriera di Trieste in un frangente in cui sembra stia per finire anche il resto del mondo per come lo abbiamo conosciuto finora. Ma se il virus che in questi giorni ci sta tutti rallentando è un elemento naturale che, una volta arginato, si lascerà alle spalle probabilmente solo qualche traccia del suo passaggio, lo spegnimento dell’impianto siderurgico iniziato il 27 marzo è qualcosa di irreversibile che cambierà per sempre il profilo e lo spirito di buona parte della città. Dopo 123 anni di attività e decenni di battaglie e contrapposizioni sociali, le nuove cartoline di Trieste saranno private del pennacchio di fumo che saliva dalle ciminiere ma anche, non appena lo smantellamento sarà terminato, del profilo scuro e geometrico della fabbrica ottocentesca. Un netto cambio d’immagine al quale si accompagnerà un animo diverso, grazie alla fine delle preoccupazioni e dei malesseri dovuti all’inquinamento da combustione di carbone e l’esaurirsi delle infinite polemiche per la salvaguardia dei posti di lavoro.

Per chi come noi già da prima dell’arrivo del Coronavirus ha sempre sostenuto la priorità della salute sugli aspetti economici, lo spegnimento dell’area a caldo della Ferriera è già di per sé un ottimo risultato. Questo era l’obiettivo che ci siamo prefissati quando nel 2015 abbiamo lanciato un appello alla lotta popolare, fondando il Comitato 5 Dicembre, e a questo siamo arrivati. Come raccontiamo nel libro “Cercando l’oro. Trieste e la sua Ferriera” uscito a fine 2019 per Aviani Editore, il percorso è stato enorme perché ci siamo trovati a duellare su diversi fronti che, da perfetti novellini, all’inizio non potevamo prevedere. Ma la fatica è stata ripagata con il risultato di questi giorni. Certo, secondo i nostri intenti la questione si sarebbe potuta risolvere in molto meno tempo se avessimo potuto continuare a contare sul supporto e la presenza fisica dei triestini, che nel 2016 si erano uniti al nostro appello scendendo in piazza a migliaia. Da questo abbiamo capito come sia difficile riuscire a mantenere alto l’interesse delle persone e motivarle ad avanzare coese verso l’obiettivo preposto, superando gli interessi particolari e le antipatie personali. Per un mix di questioni, nostri limiti personali ed errori di strategia politica, noi non ci siamo riusciti fino in fondo, ma di una cosa possiamo essere fieri: abbiamo contribuito a far pesare il problema dell’inquinamento e a incrementare la sensibilità dei nostri concittadini per la tutela della salute pubblica e il diritto alla qualità della vita, tanto che le istituzioni locali almeno ad intenti hanno dovuto tenerne conto. È innegabile che senza queste premesse non si sarebbero realizzate le condizioni che hanno portato la proprietà della Ferriera a trattare per la chiusura di quella parte d’impianto.

Per la chiusura la politica ha senza dubbio dei meriti: dopo tutto l’area a caldo viene appunto spenta per sempre. Ma al tempo stesso ha il fortissimo demerito di aver voluto tenere la gente lontana da quella che era diventata una sua lotta. Il collegamento con realtà di cittadini come la nostra che portavano avanti la causa si è affievolito praticamente del tutto e non c’è stato quel coinvolgimento che auspicavamo. Si è persa così una grande occasione per mettere in atto una buona pratica di cittadinanza consapevole e di democrazia attiva: il tutto sarà rivenduto in termini elettorali per non spartire il merito con altri soggetti.

Rivolgendo lo sguardo al futuro, intravvediamo un’occasione imperdibile per istituzioni e politica per cercare di ricostruire la fiducia troppo spesso tradita con le persone, mantenendo fede al piano di riconversione concordato con le sigle sindacali per il mantenimento dei posti di lavoro. Inoltre, alla fine dell’attuale emergenza sanitaria, lo smantellamento dell’impianto, la bonifica e la riconversione in area logistica a servizio del porto potrebbero costituire un importante volano economico per il rilancio della città. Scriviamo questo consci di continuare anche noi a ragionare secondo paradigmi novecenteschi che considerano la crescita economica come il fattore imprescindibile su cui costruire il futuro. Il Coronavirus ci dovrebbe invece insegnare che crescita, velocità e movimento non sono un mantra assoluto e che forse questi precetti possono essere sostituiti con azioni di solidarietà e cooperazione, sia a livello interpersonale che statale. Personalmente non conosciamo ancora il vocabolario per rappresentare il modo in cui questi nuovi concetti si articolerebbero concretamente nella realtà, per cui ci limitiamo ad unirci all’appello di tutti quelli che si augurano che questa amara opportunità che la storia ci sta offrendo non venga sprecata.

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