Ricordo di Jeanne Moreau attraverso tre dei suoi più celebri film

di Francesca Plesnizer

Durante l’afoso lunedì 31 luglio, all’ora di pranzo, apprendo da Twitter che Jeanne Moreau se n’è andata all’età di 89 anni. Dalle foto twittate e retwittate per dirle addio, il suo ovale in bianco e nero, il suo broncio così francese e i suoi occhi penetranti mi osservano da un tempo che non esiste più – il suo tempo, quello di un’attrice diventata iconica, capace di dare corpo alle emozioni più totalizzanti. La Moreau era in grado di rappresentare la più cupa malinconia e la più vitale allegria, l’amore disperato, folle, annoiato – l’amor che «condusse noi ad una morte».
L’attrice si era data anche alla regia: diresse L’adolescente e Lumière, entrambi degli anni ‘70.
E non è tutto: è stata pure una cantante, dotata d’una voce soave e scanzonata (come non pensare a Le tourbillon de la vie cantata nel film Jules et Jim), ma anche graffiante in tristi ballate come Adieu ma vie in cui cantava: «Adieu ma vie tracée d’avance/ce petit chemin qui va tout droit/à moi les horizons immenses/respirer en ouvrant les bras/pouvoir chanter, pouvoir chanter/aimer sans plus penser à rien/sans lendemain, sans aucun lien» (Tradotto: «Addio vita mia tracciata in anticipo/questo piccolo cammino che va tutto dritto/a me gli immensi orizzonti/respirare allargando le braccia/poter cantare, poter cantare/amare senza più pensare a niente/senza domani, senza alcun legame»). Ascoltando queste parole me la figuro mentre saluta la sua vita, piccolo grande viaggio, e si apre alla morte, oblio senza più scansione temporale, non luogo.
Ma io, dal mondo dei vivi, voglio ricordarla attraverso tre ruoli che ha interpretato diretta da registi iconici quanto lei: Louis Malle, François Truffaut e Michelangelo Antonioni.

Partiamo con Ascensore per il patibolo di Malle, datato 1958, la prima pellicola che regista e attrice girarono insieme (nonché l’esordio di lui). All’epoca Jeanne recitava da quasi un decennio e aveva all’attivo una ventina di lungometraggi – è stata un’attrice instancabile e prolifica. Il film è un noir molto lineare e, a mio avviso, ottimamente riuscito, che vanta una colonna sonora composta da Miles Davis. La Moreau interpreta Florence Carala, moglie di un ricco uomo d’affari. Julien Tavernier, uomo affascinante e passionale, è l’amante di Florence; i due hanno in progetto di uccidere il signor Carala facendolo sembrare un suicidio. Il delitto, tuttavia, non riesce alla perfezione e, mentre tenta di rimediare a un suo errore, Tavernier finisce per rimanere bloccato in un ascensore per una notte intera. Jeanne Moreau è qui impeccabile nel ruolo della donna disperata: il suo amato non arriva all’appuntamento con lei, la quale crede che egli, bloccato dalla paura, non abbia commesso l’omicidio e sia fuggito. Inconsolabile, Florence lo cerca dappertutto per tutta la notte, piangendo lacrime di amara delusione e dicendo fra sé e sé che dopotutto lo ama e che è disposta a perdonarlo. Il viso della Moreau è una maschera di sofferenza, mentre cammina sotto la pioggia, incurante di tutto, allo sbando. La si guarda e si può distintamente percepire quanto è a pezzi: non trova più la sua raison d’être, colui che l’ha resa così sconsiderata da architettare l’assassinio di suo marito. Che altro può fare, se non deambulare per la città preda del più profondo abbattimento? Fino alla fine, quando le carte si scoprono, Florence continua a vaneggiare: guardando le foto di lei e Tavernier, prove del loro adultero amore scoperto dalla polizia, pensa a quando si ricongiungeranno dopo aver scontato la loro pena. «Un’altra età, altri giorni… come dormire e risvegliarsi… morta» dice fissando il vuoto, lo sguardo perso in un altrove. Gli anni passeranno e lei diventerà vecchia, ma è convinta che sarà ancora con lui: «Lo vedi che non ci potranno separare? Lo senti, Julien?». Il volto della Moreau, ora trionfante anche nella sconfitta, è illuminato in primo piano su sfondo nero, mentre il sax strilla e il film si conclude.

Quando si dice Moreau e Truffaut, si pensa subito a Jules et Jim. Ma voglio invece ricordare un altro piccolo capolavoro del più celebre esponente della Nouvelle vague: La sposa in nero (1968), ossia “il Kill Bill degli anni ‘60” – subito si capirà il perché. Qua Jeanne è Julie Kohler, una donna letale, spietata, una combattente vestita in bianco e nero, una sposa diventata subito vedova che cerca famelica la sua vendetta.
A nozze appena celebrate, proprio fuori dalla chiesa, il suo neo sposo viene ucciso da un colpo di fucile. A sparare, da una finestra, sono stati cinque perdigiorno che periodicamente si ritrovavano in quella stanza per bere, giocare a carte e condividere le loro passioni: le donne e la caccia – ecco spiegato il fucile. Essi miravano altrove, ma commettono un fatale errore. E così Julie diventa una folle omicida: li cerca ad uno ad uno, li spia, li stana e al cospetto di ciascuno di loro si trasforma diventando tante donne diverse. La vendetta è tutto ciò che le resta, quindi vi si aggrappa saldamente, tenendo le redini ed eclissando le sue vittime con la sua tagliente femminilità. Julie usa le armi a sua disposizione: fascino etereo e velato di mistero, broncio capriccioso, fierezza e profondità di sguardo. E, una volta che i bersagli sono stati ammaliati, lei come una mantide religiosa li ammazza senza pietà, consumata da quel tormentoso odio che, per sopravvivere, rende tangibile uccidendo. In questo film la Moreau ci presenta una creatura dissennata, lucida, calcolatrice; ma, quando il suo personaggio piange ricordando il suo amor perduto, si rivela come una donna a cui, dopo quella rappresaglia, non resterà nulla. Un’interpretazione sublime, un ruolo che le calza a pennello.

Last but not least, un film tanto poetico quanto straziante, che raggiunge alti picchi di eccellenza: La notte di Antonioni (1961). La nostra Jeanne ha il volto di Lidia, moglie dello scrittore Giovanni Pontano, un Marcello Mastroianni pieno di sex appeal che qui interpreta un uomo insicuro e complicato. Lidia fatica a stargli accanto: una flaubertiana ennui ha preso il sopravvento, non lasciando spazio nemmeno alla gelosia coniugale. Lidia-Jeanne – come in Ascensore per il patibolo – vaga anche qui, per le strade di Milano. Non ha meta, non si lascia stare, cerca distrazioni e pretesti.
Ad una patinata festa dell’alta società di felliniana memoria, si consumano tradimenti, fughe, dolorose interazioni. Il finale è col botto: una bomba emotiva, che prende il cuore dello spettatore e lo stringe in una morsa. La Moreau si confessa a Mastroianni in un momento cinematografico che diventa storia, mito: «Se stasera ho voglia di morire, è perché non ti amo più. Sono disperata per questo… Vorrei essere già vecchia per averti dedicato tutta la mia vita». Lidia è in piedi accanto a un albero, tiene in mano le sue fronde, le foglie le incorniciano il viso dove non c’è più traccia d’amore, ma solo pietà. La donna trova il coraggio di affrontare la fine del suo matrimonio, ma Giovanni cerca di riattizzare la fiamma: la assalta con passione dicendole che l’ama, cerca di farla sua ancora una volta baciandola con l’enfasi e l’angoscia dell’abbandono mentre lei urla che non lo ama più e piange, lasciandosi andare – al dolore, all’amore, chissà. Una Moreau indimenticabile, stratosferica, impensabile: ha dato voce e concretezza a sentimenti universali, inscenando la vita quotidiana ma restando a un altro livello – non poteva farne a meno.

Jeanne Moreau era un’attrice dei piani alti, con gli occhi sempre cerchiati e le rughe – di espressione, di vecchiaia – mai nascoste, perché erano i segni del tourbillon de la vie, il vortice della vita che lei non solo interpretava, bensì – soprattutto – creava.

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