Essere un uomo, essere una donna: la ricetta di Philip Roth per la vita adulta

Copertina del libro La mia vita di uomo di Philip Roth

Di Francesca Plesnizer

«Accorrevo subito quando la mia padrona Maureen chiamava. Se è così, oh ditemi come posso smettere! Come faccio a diventare ciò che, in letteratura, si definisce un uomo? Avevo tanto desiderato, sempre, esser un uomo: perché non ci riuscivo? O sennò: può darsi che la vita di questo ragazzino sia la vita di un uomo, dopotutto… Sarà così? O può darsi, pensai, può benissimo darsi che io mi aspettassi troppo dalla “maturità”. Queste sabbie mobili sono, appunto, la vita adulta».

In queste righe è racchiuso il cuore del romanzo La mia vita di uomo di Philip Roth, datato 1974. Fra queste frasi si percepisce lo struggente e fuorviante desiderio di Peter Tarnopol, il protagonista, di diventare un uomo. Ma che cosa significa “essere uomo”? 
La struttura del romanzo è peculiare: è diviso infatti in due parti, la prima consta di due racconti che vedono come protagonista Nathan Zuckerman, storico alter-ego fittizio di Roth. Nella seconda parte troviamo invece la vera storia, scritta in prima persona, di Peter Tarnopol, scrittore e insegnante di letteratura, che scopriamo essere l’autore dei racconti della prima parte.

Tarnopol ama Flaubert e in generale gli scrittori “pilastro” della letteratura internazionale, perciò ricorre a una definizione di uomo per così dire “letteraria”. Un uomo è per lui un eroe da romanzo, che compie piccoli grandi atti e prende in mano la sua vita, ma soprattutto è una persona dotata di un alto profilo morale. La moralità, il “fare la cosa giusta”, giocano un ruolo importantissimo all’interno dell’opera. Tarnopol, infatti, sposa la sua padrona (o la sua schiava?) Maureen perché lei resta incinta (scoprirà poi che era tutto un inganno, che non c’è mai stato nessun bambino). Pensa sia la cosa giusta da fare, anche se la relazione non va da nessuna parte, anche se da tempo la donna gli è venuta a noia e non c’è, fra loro, nessuna intesa, né intellettuale né sessuale. Ma, anche dopo la loro separazione, anche quando Tarnopol intraprende un’altra relazione, i due continuano a restare legati indissolubilmente. Tarnopol è convinto che sia l’odio che prova per lei a tenerlo ancora al guinzaglio, ed è vero, certamente, ma in quell’odio si ravvisa anche qualcos’altro. Il loro, non servirebbe dirlo, è un rapporto altamente morboso e tossico: Tarnopol trova nel disprezzo per lei la sua ragion d’essere, parla di lei e quasi solo di lei al suo psicanalista, il dottor Spielvogel, e scrive ossessivamente di lei. 

Sembra proprio che, quella agognata definizione di “uomo” sia necessariamente collegata a quella di marito/ex-marito/vittima o carnefice, a seconda delle situazioni. Tarnopol, in realtà, non ha una corretta (né sana) percezione di sé. Si sente buono, caritatevole e integerrimo perché ha sposato una donna che credeva incinta anche se non l’amava né la desiderava. Si sente un santo perché l’ha tradita solo una manciata di volte («Ero praticamente un monaco», dice al suo incredulo psicanalista). Tarnopol sente solo quello che vuole e che gli conviene sentire. Dice di volere la libertà, la libertà da quella sua padrona e carceriera, ma non sa vivere senza di lei – nemmeno quando lei morirà, lasciandolo libero per davvero, ma solo in un modo fisico, terreno. Per Tarnopol, uomo d’altri tempi, trentenne a cavallo fra gli anni ‘50 e ‘60, diventare un uomo adulto equivale a sposarsi, forse ad avere dei figli (che non arrivano). Ma, quando si sposa, non avviene in lui quel cambiamento di status che s’era aspettato: dopo il matrimonio non si apre nessuna magica porta che conduce alla vita adulta. Tarnopol resta in quelle “sabbie mobili”, annaspa, affoga, si ritira su, nuota un po’, ritorna ad affannarsi ancora e ancora.

E altrettanto fa Maureen, che vive di espedienti e di inganni, convinta di essere nel giusto (o forse mettendo in atto una forzata opera di autoconvincimento), persa nelle sue fantasticherie e nei ruoli che si cuce addosso: la musa di suo marito lo scrittore; una scrittrice lei stessa, rinunciataria perché, crede lei, non vuol mettere in ombra il suo consorte; una povera vittima degli eventi, una donna certamente tradita che però seguita a ricercare il suo traditore, a cercare addirittura, ostinatamente, il di lui contatto fisico, seppur violento (ancor meglio se violento). In tal senso va letta l’agghiacciante sequenza romanzesca in cui Maureen, di nuovo con l’inganno, riesce a ottenere un appuntamento a casa del suo ex marito da cui ancora non ha divorziato (né ha intenzione di farlo). Lì si consuma una spirale di follia, violenza psicologica e fisica, che Roth descrive magistralmente, senza risparmiare al lettore nessun orrore, nessun particolare pruriginoso o sconvolgente (Maureen, terrorizzata, arriva al punto di defecarsi addosso).

Pare quasi che, attraverso il suo personaggio, Roth si auto-accusi come uomo, presentandosi per quello che è. Un essere che vorrebbe risultare morale, che tenta di orientarsi nella sua labirintica esistenza, ma che è in realtà anche abietto, violento, collerico, morboso, misero, legato a istinti carnali, affannato nel perenne tentativo di appagare il suo ego e ricevere conferme dagli altri. E, allo stesso tempo, mostra che anche la sua moglie letteraria Maureen non è poi da meno.
La mia vita di uomo, con l’attualità e l’universalità che solo le grandi opere possiedono, ci mostra che, forse, essere un uomo (o una donna) è proprio questo: annaspare, restare a galla come meglio si può, combattendo giornalmente con i proprio demoni, contro i nostri padroni e carcerieri. Essendo più o meno consapevoli che, in fin dei conti, i carcerieri e i padroni più terribili e temibili potremmo proprio essere noi stessi, i più acerrimi nemici dell’uomo o della donna che siamo.

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