Felicitazioni: i CCCP come macchina ucronica

di Nicola Gaiarin

Entrando ai Chiostri di San Pietro, a Reggio Emilia, per l’esposizione che celebra i quarant’anni dei CCCP, subito si notano i contrasti. Quello tra le mura solo parzialmente restaurate dello spazio, con ampi porticati che girano attorno al cortile centrale, e la nitidezza dei primi segnali che colpiscono il visitatore. Quello tra la solennità un po’ decrepita del chiostro e la leggerezza delle bandiere delle ex repubbliche sovietiche. Vaga sensazione di esotismo balneare, specie per gli stendardi che richiamano gli intarsi asiatici, le decorazioni della steppa. Luoghi di conquista, ma anche hotel di villeggiatura per burocrati in vacanza, magari in Georgia o in Crimea. Soprattutto, il contrasto tra il tempo che è passato e le operazioni di un gruppo che ha continuato a lavorare sulla creazione di spazi e tempi alternativi. 

“Un freddo più pungente / accordi secchi e tesi / segnalo il tuo ingresso / nella mia memoria” declama Annarella in uno speciale CCCP alla Rai, e l’impressione è proprio quella di entrare in una memoria altrui che è anche, non potrebbe essere altrimenti, la nostra. E allora cosa si ricorda, a caldo, di una visita che è tutto un gioco di icone e impressioni, prima di tutto stilistiche e ideologiche, come se la realtà fosse d’un tratto aumentata, sovrascritta, sovraimpressa? 

L’ideologia è una struttura che prevede per ogni passo di coloro che si muovono al suo interno una direzione preordinata: in questo caso, è il nostro sguardo a essere orientato, anticipato, dall’apparato visivo messo in scena. Le immagini non valgono per quello che esprimono, ma in quanto rappresentazioni di uno sfondo comune nel quale il visitatore si inserisce. Offrono a chi guarda una direzione o un orientamento nel mondo definiti in anticipo. Ci troviamo immersi in un panorama ideologico che non è quello occidentale: per questo è allo stesso tempo familiare (l’abbiamo visto in tutte le loro copertine) e profondamente altro. Come un tempo fantasmatico, pieno di effetti di hauntology, quello dei CCCP non è mai un discorso maggioritario, ma scivola a lato continuando a spostare la percezione e il senso. Il passato messo in scena è carico di futuri non realizzati che, proprio perché tali, infestano il nostro tempo come virtualità ucroniche. Siamo in un tempo di celebrazione, ma siamo soprattutto in un tempo eterogeneo rispetto a quello ordinario. 

Si entra e parte a volume altissimo, almeno per uno spazio espositivo tutto sommato istituzionale, Spara Jurij. Nemmeno il tempo di riprendersi e già nello spiazzo centrale dei chiostri appare una Trabant circondata da filo spinato e cavalli di Frisia, mentre un altoparlante diffonde Live in Pankow. Un gran pezzo di muro di Berlino si erge sulla ghiaia, con l’inevitabile effetto da monolite spaziale, mentre sotto al porticato la scritta “èunaquestionediqualità” ci mette di fronte a una delle grandi capacità della band: creare formule che rimangono in mente, come paradossali slogan del deragliamento ideologico (ognuno di noi ha le sue frasi, i suoi versi, le sue memorie, appunti, “nonstudiononlavorononguardolatv” oppure “lodeamishimaeamajakovsky” o “iostobeniostonaleiononsoicomestare”, “osarelimpossibileosareperdere”). Questo ingresso berlinese, esibito senza pudore, è la migliore memoria della fondazione dei CCCP, la ragion d’essere, il loro stare sulla linea di separazione che, attraversando l’Europa, dava senso possibile a quella strana profanazione continuata nel cuore dell’Emilia. Nato all’ombra del muro, dal fatidico viaggio Zamboni-Ferretti, il corpo CCCP si porterà dietro l’impossibilità di dirsi “uno”: sempre oggetto di separazioni, ritagliato e ricomposto, sempre a metà (metà canzone metà installazione, metà musica metà performance, metà furbizia metà genio, metà visione metà riciclo). Un corpo musicale per quattro intelligenze che non si ricompongono mai (e che ci fissano, in una suggestiva installazione video che ce li mostra come sono ora, in posa da mucchio selvaggio, invecchiati, reduci, come tutti, nel tempo e che ci guardano per chiederci cosa siamo diventati noi). 

I CCCP sono stati un’opera d’arte totale, tra musiche, danze, gesti, abiti, copertine, mappe. E non può non stupire l’ufficialità della retrospettiva, con la sua aria da festiva celebrazione comunale, in centro città, tra famiglie e carrozzine, e occhi con sotto sotto la lacrima della nostalgia per chi ha affermato il margine, inventato l’ostalgie prima ancora che l’est fosse un passato di cui essere nostalgici. Stranezza del festeggiamento di qualcosa che sembra impossibile da celebrare perché si è da sempre celebrato da sé. Come parlare di rischio di monumentalizzazione quando fin dall’inizio, con le loro ortodossie variegate, i CCCP hanno giocato con i monumenti, con l’architettura e la statuaria del realismo socialista? In una delle sale domina un gigantesco quartetto di eroi del popolo, reinvenzione in cartapesta simil marmo della copertina del loro disco. Un’altra, è occupata dalla scrivania ottagonale del PCI di Reggio, in una ricostruzione dell’apparato politico come via italiana al socialismo. Ideologia come simulazione? Egemonie della messa in scena? Tutto facile se non ci fosse poi, nella sala Socialismo e barbarie, un solenne palo da via crucis pagana, con muso di trattore e ombrellino di carta. Da sempre esotici, i CCCP, che praticano aperture a un’alterità interna, straniata, paranoica, via di fuga attraverso cui ritualizzare il corpo collettivo del modello emiliano riattingendo al fondo di un paganesimo padano disgregato e diffuso. È la fisicità di Danilo Fatur, artista del popolo col suo giubbotto di pelle senza maniche, sulla schiena scritte a mano che dicono Torquemada, Santillana, Diablos, monaco controriformista e corpo teatrale kitsch e contadino. Non mi pare di averla vista, alla mostra, ma ricordo una sua foto con al collo un cartello/gogna, di allarme sanitario per epidemie epizootiche.

Se ogni sacrificio porta con sé il tema del resto, lo scarto che resiste al fuoco e che si presenta come elemento di cui disporre, questa è una mostra sacrificale, fatta di cose lasciate indietro o di reperti scavati fuori dal fango o dal deserto. Cosa ce ne faremo di tutti questi residui non riciclabili e non combustibili? Il percorso parte seguendo un ordine cronologico, dettato dalle uscite dei dischi, con grafiche, provini, volantini, annunci di vendita per posta. Spilline, cappotti militari e vestitini da balera come tutti ne abbiamo visti negli armadi dei nonni o sulle bancarelle provenienti dall’est negli anni della smobilitazione della cortina di ferro. Altrettanti temi visivi che battono il tempo di una filologia immediatamente onirica, piena di oggettini e cappelli, maschere antigas, testi ciclostilati, date di uscite a stampa, elenchi di cambi d’abito, con i piani dei chiostri che ospitano stanze che sono ingressi ucronici, tempi e mondi altri, con titoli come OndeReclame Fedeli alla lira.

In una delle sale, che sono appunto nicchie o capsule in cui ci attendono possibili addensamenti di materia ideologicamente radioattiva, ecco il teatrino di Allerghia, con Fatur e Annarella, la soubrette benemerita, che animano dei duetti tra annunci da Telereggio, pezzi di cabaret spartakista, Vallanzasca mantra e Totò alpino negli anni ‘80. Ed è guardando quel filmato, tra altri reperti che potremmo definire multimediali (concerto leggendario al Tuwat di Carpi che si celebra nel gelido stanzone del secondo piano, il nastrone Ampex GM 3600 ritrovato di un altro concerto esposto in una teca, il ciclo allargato di foto scattate da Ghirri durante le sessions per il terminale Epica, Etica, Etnica Pathos…) che mi viene in mente di scrivere queste cose. Mi sembra la perfetta sintesi dei CCCP e della complessità del loro essere fatti di segni, macchina semiotica che genera fraintendimenti e scambi tra alto e basso, ortodossie e ironia, pianura e periferie, più che letture a senso unico.

Ogni nicchia segna una rottura o un salto: dalla militanza alle preghiere, dalla bassa fedeltà underground alla ricostruzione dei luoghi mitici, a metà tra comune di campagna e improbabile squat sovietico, che hanno segnato le origini del gruppo. La saletta Lombroso suggerisce un singolare percorso antipsichiatrico, critico e clinico, con i santini di Cooper e Laing davanti alla gigantografia del bugiardino del Tavor, mentre emergono i ricordi di un Ferretti operatore psichiatrico. E ancora la sala Amandoti celebra l’infezione pop di un brano “scappato di mano” e assunto a classico della canzone italiana: testo sacro da cover o virus melodico che si riproduce da solo. La declamazione amorosa che diventa coro e tormentone. Ecco allora, per concludere, l’impressione finale: quella di essere al cospetto di un dispositivo ucronico che a ogni sala, mostrandoci parte dell’universo dei CCCP, ci mostra anche una nostra forma possibile. Un’Italia possibile, una musica possibile, un’altra politica dei corpi e dei canti, con il turibolo illuminato di rosso che ritma l’inno mariano Madre di Dio, un’estetica possibile in cui le chiese si cambiano posto, la chiesa comunista e quella cattolica, in cui il fondo pagano apre una faglia sulla pianura, mentre sale la nebbia, come un totem epizootico che sorge dalla terra, in cui le derive cliniche sono domate da farmaci antipsicotici, il Roipnol che fa un casino, unica droga possibile in una farmacopea favolosa cantata a litania, nel teatrino di paese, come se una compagnia di guitti ci raccontasse spettacoli di santi e partigiani, di funzionari in giacca grigia, corridoio da luna park o da sede di partito, wunderkammer lombrosiana creata da quattro rimescolatori di sogni e segni. Quanto possibile c’è stato, in un azzeramento del futuro!

*Immagine tratta da Chiostri San Pietro, crediti qui.

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