Il mondo che crolla. Contro la medicalizzazione del dolore (II)

di Simone Raviola

(Illustrazione di Luca Cingolani)

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

(Eugenio Montale)

Il ritorno del ritorno?

Con Roberto Bolaño avevamo concluso: la gioia del fallimento, la gioia come nome proprio del fallimento. La chiosa sembrava reggere e la sofferenza della vita ci appariva “salva”, al riparo da ogni appropriazione indebita. Eppure, siamo stati superficiali. Presi dalla rabbia abbiamo forse ceduto alla tentazione di opporre il passato al presente. Gottfried Benn (un reazionario classico), il mondo greco e una spiccata attenzione alla tradizione hanno forse rischiato di trascinarci a fondo, in quella sempre verde speranza di un ritorno del trascorso. Siamo stati ingenui: indietro non si torna. Ciò che è stato è irrimediabile, la storia e la natura si impongono nella loro irreversibilità. La vita odierna non si legge nei termini della tragedia, il continuum dell’esistenza non si oppone più a nulla – nemmeno al nulla stesso. Poco o nulla da recriminare.

La notte più buia: la rimozione del negativo, la kenosis della morte che ne fa una semplice illusione prospettica. Epicureismo da bar di paese, il mito transumanista. Il rischio più grande: il ritorno del negativo, messo a profitto. Se al delirio notturno abbiamo in qualche modo corrisposto, il rischio di mettere a reddito il dolore e la morte è più che mai vivo. Anzi, sembra proprio vivere un momento fortunato nel dibattito contemporaneo.

§ Pharmakós in greco antico è termine che significa tanto medicina quanto veleno. Inoltre, pharmakós era il nome di un rituale in uso presso la Grecia antica che prevedeva l’espulsione dalla città di un individuo, di solito caratterizzato dalla bruttezza, chiamato appunto pharmakós. Il rituale si tradurrà in epoca democratica nella forma del noto “ostracismo”. In ogni caso, secondo Walter Burkert, il fatto che l’individuo venisse regolarmente nutrito e curato all’interno delle città prima dell’espulsione (o uccisione) implica uno statuto purificatore del rituale. In un primo momento si assimila il “malato” all’interno della città, egli ne deve far parte. Successivamente, tramite un rito codificato, lo si espelle dalla città. Su di esso, a mo’ di “capro espiatorio”, viene riversata ogni negativo della città («sii tu il nostro lordume»). I cittadini si affermano così puri – integri – rispetto al brutto, al malato, a colui che viene caricato simbolicamente di ogni debolezza dell’esistenza. Il popolo greco era un popolo sano, il suo rapporto con la morte, seppure tragico, si richiude nei limiti del rito e del mito, e in definitiva nell’affermazione della propria potenza.

Il carattere “dorico” ha pervaso il popolo greco e nessuna nostalgia romantica, imperversante in una certa tradizione filosofica occidentale, può nascondere la barbarie insita in quel mondo. Come dice l’amico Luca Rocco, la Grecia come concetto di “classico occidentale” è frutto di una rivisitazione storica ben precisa. Ne Il mondo dorico anche Gottfried Benn fa risalire la forza greca al modello spartano – aspro, violento e fortemente comunitario. “Tornare ai greci” è da sempre la tentazione della filosofia ma, ammesso che il mondo greco esista e sia quello che ne pensiamo oggi, questa operazione di fatto non è possibile né auspicabile. Il nostro tempo non vive più nelle parole di Omero, quanto piuttosto in quelle di Dostoevskij (considerazione non mia, che traggo una voce amica). Sempre rinnovato e sempre in fallimento, il nostro compito rimane quello di essere i nostri greci, di costruire la nostra Grecia.

Il dolore rimosso

Ne La società senza dolore, un pamphlet arguto, preciso ed eclettico nei riferimenti, Byung-Chul Han tenta di mostrare come la società contemporanea si caratterizzi per un’algofobia onnipervasiva. Secondo Han il nostro tempo è quello della cura, dell’anestesia, della rimozione completa del dolore. Oggi, scrive Han, «ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico. Alla cultura della compiacenza [la nostra] manca la possibilità della catarsi». Ogni capitolo del libro affronta da una diversa prospettiva questo intimo nucleo di pensiero. La sofferenza ci fa grandi: «Il dolore rientra giocoforza in un’idea eroica del mondo». Ricordiamo necessariamente Nietzsche, con un passo di quel libro, uno dei suoi ultimi pubblicati in vita, ancora così potente: «il dolere è santificato […] ogni divenire, ogni crescere, tutto ciò che sia garanzia d’avvenire implica il dolore…».

A redimere il dolore, pensa Han, è anche la felicità stessa, essa si nutre infatti del suo presunto opposto:

«La vera felicità è possibile solo se infranta. È proprio il dolore a salvaguardare la felicità dalla reificazione. Inoltre, le conferisce una durata. Il dolore regge la felicità. La felicità dolorosa non è un ossimoro. Ogni intensità è dolorosa. La passione unisce il dolore e la felicità. La profonda felicità contiene un attimo di sofferenza. L’infelicità e la felicità sono, secondo Nietzsche, “due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o […] restano piccole insieme”. Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore. La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore».

Nel pamphlet di Han la sofferenze è “riscattata” a più riprese. Terminato il volume, siamo preda di un irrefrenabile desiderio di ingurgitare una dozzina di farmaci diversi, così da ribaltare le retoriche sul benessere farmacoindotto e finire in un reparto di terapia intensiva con un’ulcera bucata. Trasformando la medicina in veleno, il nostro organismo potrebbe finalmente accedere alla profonda felicità che la sofferenza può dischiudere, mostrarci come il vaso della sofferenza sia il vaso della felicità.

Se volessimo porre la questione in maniera rigorosa, diremmo invece che La società senza dolore è l’elenco più esatto, filologicamente accurato e competente in fatto di pensiero, di come il nostro mondo ha pensato la sofferenza fino ad ora. Tale ricapitolazione trova il suo compimento, necessariamente, nella plastica sentenza: la sofferenza apre alla verità. La sofferenza assume il suo senso altrove, sia questo altrove declinato in termini di verità, conoscenza, vita autentica, rivoluzione, felicità o racconto (autobiografico o meno che sia).

Han mostra accuratamente come la nostra tradizione di pensiero abbia trasvalutato quella stessa sofferenza che la società contemporanea tende a rimuovere maniacalmente. Il suo testo è anche molto attento nel distinguere le forme cattive di rivalutazione della sofferenza (“La psicologia positiva subordina persino il dolore a una logica della prestazione. L’ideologia neoliberista della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori di un aumento della prestazione. Si parla addirittura di crescita post-traumatica”), da quelle buone. Il gesto di Han rimane però quantomeno miope: esso ascrive al solo capitale e alla sola ideologia neoliberale la messa al lavoro della sofferenza. Ne La società della trasparenza, Han affronta egualmente il problema del negativo. Nel tentativo di mettere a valore la negatività così deprecata dalla “società positiva”, in quel testo Han scrive: “la negatività dell’omissione e dell’oblio può avere un effetto produttivo”, continuando poco dopo: “lo spirito è lento perché soggiorna presso il negativo e lo elabora a suo profitto”. Le sofferenze sono equiparabili a omissioni, negativi difficili da integrare nella “società del positivo” in cui viviamo. Eppure produttività e profitto sono due termini che suggeriscono come l’eroica trasvalutazione della malattia, e l’accettazione del suo negativo, siano passibili di essere accostate all’etica della resilienza del contemporaneo.

Un vuoto di senso

Contro noi stessi e i nostri sogni nostalgici, siamo costretti a insistere: non c’è senso al di fuori dell’insensatezza, il senso del nostro tempo è quello di non avere senso. Invano cercheremo fuori dell’uomo – o peggio, dentro – un senso ulteriore. La ricerca è vana, la malattia e la sofferenza si (ci) aprono su una mancanza di senso totale. Né Dio, né Rivoluzione, né Verità, né Felicità, né Gioia riscatteranno l’agonia del vivere. Il divieto di transito, né unico né doppio senso, non è inventato, voluto o desiderato – esso proviene dalle cose stesse, dalle nostre società in crisi. Siamo algofobici perché abbiamo dimenticato il senso del dolore, ma non è ricordandocene che porteremo indietro la lancetta del tempo. Nessuna dialettica del dolore, non più.

A questo punto è necessario tornare nel “luogo” in cui tutto ha avuto inizio, un cervello sifilitico inviluppatosi alla fine del XIX secolo. L’abbiamo citato, torniamo al suo dire: che cosa significa che il “dolere viene santificato”? Siamo veramente di fronte a una concezione della sofferenza – in fondo molto socialista, cattolica e un pochino troppo ottimista – per cui la sofferenza è il motore dell’accrescimento vitale, sociale e spirituale? Un’idea della morte, che sia concreta o ideale poco conta, come necessario viatico per la “vita vera”? Certamente no.

Ciò che cerchiamo: «non una via di consolazione che reintrodurrebbe rappresentazioni, certezze di un ritorno alla vita, eccetera, ma un punto di contatto tra il pensiero e l’esperienza dell’orrore, dell’angoscia o della derelizione di fronte alla morte, mia o altrui» (Jean-Luc Nancy, II).

Santificare il dolore – proteggere attraverso una sanzione la sofferenza – significa vietare che qualsiasi senso si appropri della sua contingenza, significa salutare la sofferenza, affermare la morte, il negativo, separandolo (è il senso di “sacro”). Per lungo tempo è stato possibile trasvalutare la sofferenza, utilizzarla dialetticamente, è stato possibile dargli una forma; si è pensato poi che – eliminando la sofferenza – si sarebbe potuto evitarne anche la messa in forma, vivere anestetizzati senza più alcun sforzo di superamento: la nostra epoca di anti-eroi borghesi. Ma oggi è il giorno in cui un nuovo pensiero della vita e del suo negativo si fa avanti, e con esso un’etica inedita: l’esistenza, la sofferenza che marchia questo mondo, andrà da ora in poi adorata (ad-oràre).

Santa sofferenza

Il pensiero che adora la sofferenza vi si rivolge come preghiera, “supplica e lode. È lode che supplica: ogni volta celebra e deplora insieme, chiede una remissione e dichiara l’irremissibile” (Jean-Luc Nancy, I). Coincidentia oppositorum, dunque. L’adorazione non riscatta la sofferenza e nemmeno la mancanza di senso che essa svela. L’adorazione si limita a contemplare la malattia con il pathos della distanza, la passione stoica e drammatica dell’essere all’altezza. L’adorazione sa che «siamo miserabili – ma riconosce allo stesso tempo che questa miseria non è decadimento. È la condizione dell’essere abbandonato al mondo fortuito» (Jean-Luc Nancy, II). La fortuità – né necessità né contingenza – del mondo e della sofferenza che lo innerva viene così elevata a stato inaccettabile, eppure già da sempre accettata: salutata, lasciata e conservata nella sua integrità. L’adorazione è il pensiero finalmente capace di non salvare il negativo, perché esso è di per sé salvo (integro, salus: in salute): essa “saluta l’abisso salvo. L’abisso così preservato, desolato e dichiarato nella desolazione, un abisso che è impossibile tanto richiudere quanto sondare, dà al saluto la dignità – strana, insopportabile, in lacrime – del mondo che crolla” (Jean-Luc Nancy, I). Il cedimento di senso, il mondo che crolla; la sofferenza, frattura intima dell’esistente. “Non ci può essere consolazione alla desolazione, se consolare significa alleviare il dolore […] Tutto deve invece ‘consolare’ nel senso di rafforzare la desolazione e renderne intrattabile e inattaccabile la durezza” (Jean-Luc Nancy, I). Il negativo emerso attraverso la sofferenza, il negativo che è il dolore, viene così protetto da ogni utilizzo e da ogni dimenticanza, abbandonato al suo vuoto di senso e reso oggetto di attenzione in quanto tale.

Adorazione: il moto e la gioia di riconoscerci esistenti nel mondo. Non che questa esistenza non sia dura, ingrata, percorsa dall’infelicità. Questa infelicità tuttavia non è un prezzo da pagare per raggiungere un altro mondo. Non riscatta nulla, ma almeno possiamo, fin quando non rinunciamo a vivere, salutare di tanto in tanto qualcuno degli enti, nominarli. Adorare si fa nominando, salutando l’innominabile che il nome racchiude e che non è nient’altro che la fortuità del mondo

(Jean-Luc Nancy, II).

In questo impervio cammino, gli unici Virgilio possibili – oggi come sempre – rimangono le scienze dei nomi: “L’acqua ch’io prendo già mai non si corse; / Minerva spira, e conducemi Appollo, / e nove Muse mi dimostran l’Orse” (Dante, Canto II, Paradiso). La filosofia è l’incerto nocchiero della nave in tempesta che chiamiamo vita, la filosofia è la scienza nella quale sapienza e poesia si congiungono nella carne del concetto, forma terrena delle costellazioni stellari, donando una chiave di lettura (sempre imperfetta) delle carte nautiche chiuse nel firmamento. Ars regia, statua liscia e impassibile, nuvola leggera e impalpabile, la filosofia come un falco si libra: alta, levata, imperdonabile e fieramente libera. Pensare, adorare, salutare, nominare: “schiudere la divina Indifferenza” di tutto ciò che è, ivi compresa la sofferenza.

Postilla

Su queste stesse colonne, David Watkins ha descritto l’etica della scrittura con una forza evocativa senza pari: “Scrivere significa, essenzialmente, peggiorare. Diventare peggio; andare su nel peggio; approssimare il pessimo. Quanto non è suscettibile di peggioramento, occorre, immediatamente, lasciarlo andare. Che se ne vada a essere migliore da qualcun altro; noi si ha da aggrovigliare i guasti, ancora e ancora, e peggiorare meglio”. Privi di salvagenti, la scrittura e il pensiero sono scienze del disastro, ossessivi e patologici esercizi di fallimento il cui unico scopo è nominare la torsione di questa infinita caduta. La sofferenza? “Che se ne vada a essere migliore da qualcun altro […] noi si ha da aggrovigliare i guasti”.

Piccola bibliografia

Burkert, Walter, La religione greca di epoca arcaica e classica, trad. it. Pietro Pavanini, Jaca Book 2019.

Benn, Gottfried, Lo smalto sul nulla, trad. Luciano Zagari, Adelphi 1992.

Han, Byung-chul, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, trad. it. Simone Aglan-Buttazzi, Einaudi 2021.

Han, Byung-Chul, La società della trasparenza, trad. it. Federica Buongiorno, Nottetempo 2014; la nostra versione di riferimento: Han, Byung-chul, La societé de transparence, trad. fr. Olivier Mannoni, Puf 2017.

Nancy, Jean-Luc, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, trad. it. Rolando Deval, Antonella Moscati, Cronopio 2007.

Nancy, Jean-Luc, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo II, trad. it. Roberto Borghesi, Antonella Moscati, Cronopio 2012.

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