Le città invisibili

di Lilli Goriup

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Il fenomeno migratorio è andato costituendosi nel discorso pubblico come emergenza o allarme “immigrazione” negli ultimi vent’anni, e in particolar modo negli ultimi tempi, a partire dalla tragedia al largo di Lampedusa (2013), in seguito alla quale i media e il discorso politico hanno aumentato il focus dell’attenzione sul tema. La regione FVG è salita agli onori della cronaca, con l’ottima inchiesta di Raffaella Cosentino su “la Repubblica” del 01 ottobre (1), a proposito della tendopoli presente a Gorizia e della “città di cartone” a Trieste. Non potendo esaurire in un articolo l’analisi di un fenomeno così articolato e spesso mistificato, opto per l’approccio di andare a visitare alcuni spazi di prima accoglienza, per conferire concretezza all’idea di questi non-luoghi, città invisibili appunto, provare ad ascoltare la voce di coloro cui viene negata, sfiorare – piuttosto che toccare – con mano i diversi possibili campi di ricerca e le problematiche che si legano al fenomeno.

Campo Francesco a Gorizia

Meno invisibile di altre città, la tendopoli goriziana è stata allestita a metà settembre, mentre è della scorsa settimana la notizia che ha chiuso i battenti. Voluta dalla Giunta provinciale per dare una sistemazione dignitosa anche se temporanea a un gruppo di migranti afghani stanziatosi sul greto del fiume Isonzo, ha costituito un casus belli tra questa e il comune di Gorizia. Gestito unicamente da volontari, campo Francesco ospitava, al momento della mia visita, una trentina di migranti. Trovandosi nel cuore di Gorizia ha causato lo sdegno di tanti benpensanti, caduti dalle nuvole di fronte all’impatto con l’altro, che solitamente si preferisce non vedere. L’emergere di nuove destre, estreme e xenofobe, rilevato dai risultati delle ultime elezioni europee, si manifesta anche a livello locale, con il fiorire di gruppi facebook dove malcontento, ignoranza e pregiudizio possono trovare sfogo.

Lungi dal voler dare visibilità a questi gruppi, scelgo tuttavia un’immagine fra tutte che mi pare emblematica: lo screenshot di un caricamento dal cellulare pubblicato da un abitante della provincia, dove è raffigurata una persona di colore che indossa una maglietta inneggiante al fascismo.

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La foto ottiene innumerevoli condivisioni e suscita commenti più che divertiti. Al di là della ferocia dell’immagine della persona derisa per una sua supposta ignoranza e del sotteso ammiccamento al fascismo, va sottolineato che è il popolino del social network ad ignorare il fatto che probabilmente il capo di vestiario deriva dalle donazioni di abiti dismessi che solitamente vengono fatte ad associazioni caritatevoli da parte di privati. Sayad parla di “funzione specchio” del fenomeno della migrazione, ovvero “dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di ‘innocenza’ o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che è abitualmente nascosto nell’inconscio sociale(…).”(2)

Secondo i dati forniti dalla questura, da quando è stato allestito il campo la criminalità non è aumentata, spiega il consigliere di minoranza Emanuele Traini. Un’altra diceria facilmente smascherabile è quella dei 30 euro al giorno che coloro che vengono categorizzati sotto il generico calderone di “immigrati” riceverebbero alle spese dei contribuenti. I richiedenti asilo ricevono 2,50 euro al giorno per le proprie spese: si tratta di fondi stanziati dalla comunità europea.

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Al momento del mio arrivo a campo Francesco non sono presenti volontari; mi presento ai ragazzi afghani e chiedo se per loro è un problema se scatto qualche fotografia. Si fa avanti Jan, evidentemente tra coloro che padroneggiano meglio l’inglese. Mi offre un tè caldo, mi accompagna a fare un giro all’interno del perimetro del campo, io gli offro una sigaretta. Non so cosa mi aspettassi di vedere; è semplicemente un luogo in cui si vive, come si può, con ciò che si ha. C’è una tenda che funge da spazio comune, dove sono arrangiati tavoli e panche. Ci sono i bagni del campo sportivo dove le persone fanno a turno per lavarsi. Jan non parla volentieri del suo passato; è fuggito da un paese lacerato nel 2006 attraversando la Turchia e la Grecia, non avendo ottenuto asilo in altri paesi è infine giunto qui, trovando una sistemazione di fortuna lungo il letto del fiume, assieme a tanti altri dannati della terra. In Afghanistan aveva studiato, ci tiene a dirmi. Era considerato un oppositore. Mentre sto parlando con lui, arriva un volontario Caritas e gli chiede quante persone saranno presenti per il pranzo, Jan risponde che in sedici stanno arrivando dal fiume. Stupita, domando quante persone vivono ancora lì. Sono nuovi, mi spiega, le persone si spostano perché non sanno dove andare, non ne conosce il numero preciso. Altri trovano temporaneamente sistemazione presso altre strutture della cittadina. Numeri ufficiali dalla questura sono emersi soltanto il 16 ottobre (3), in nota il riferimento poiché non mi sembra significativo riportare una cifra non contestualizzata. Sono tanti? Sono pochi? In relazione a cosa e a quale arco di tempo storico? Solo un’analisi a parte può fornire una risposta non populista, che non fomenti le retoriche dell’“invasione”, tuttavia è evidente che stando così le cose il numero è soggetto a mutamenti.

Una realtà triestina

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Visito un edificio abbandonato della città, e perciò adibito a struttura di prima accoglienza, non solo per migranti ma a disposizione di chi, di volta in volta, ne fa richiesta: in passato, mi spiega un operatore ICS, il Consorzio Italiano di Solidarietà (4), ha ospitato dei senza tetto per conto di Caritas. Di luoghi come questi ne esistono diversi in città, e tuttavia non abbastanza – si vocifera che qualche decina di persone dorma all’interno della stazione ferroviaria, in attesa che si trovi una sistemazione per loro, per non parlare dell’accampamento spontaneo, la “città di cartone” messa in luce dalla Cosentino nella sovra citata inchiesta. Lo scontro tra Giunta e Comune a Gorizia, Caritas, ICS: tutti questi riferimenti possono creare confusione; il fatto è semplicemente che lo Stato italiano non ha un programma coerente sull’integrazione, ma delega a realtà altre, stanziando (pochi) fondi. Nell’edificio in questione trovano rifugio una trentina di migranti provenienti dal Gambia, in attesa di ottenere lo stato di rifugiati.

La struttura apre alle 19.30 e chiude alle 9.30. Mi colpisce il fatto che gli ospiti, come a Gorizia, siano tutti di genere maschile oltre che di età visibilmente giovane. Chiedo a un operatore se sia un caso oppure se donne e uomini siano adibiti a strutture diverse. “Banalmente, i ragazzi sono gli unici che sopravvivono al viaggio”, mi risponde seccamente. Si dorme su brande sistemate all’interno degli stanzoni, c’è una stanza con i rifornimenti alimentari e di vestiario. Anche qui c’è una quotidianità, fatta di piccoli gesti, spensieratezza. Qua si vive bene, mi assicurano alcuni ragazzi. C’è chi ascolta musica, chi condivide un tè caldo o un caffè serale davanti al tavolino del corridoio, chi lava i propri panni nei lavandini e li stende ad asciugare sulle transenne o in cima alle porte semiaperte. Scappa spesso e volentieri la battuta, il sorriso, lo scambio delle poche parole conosciute, in italiano o in inglese, lingua franca, quest’ultima, all’interno del centro.

Un’altra narrazione da sfatare è forse quella che dipinge gli “immigrati” come vittime, costituendoli senza volere come categoria altra, lontana da “noi”, una narrazione che finisce per “deumanizzarli” quanto quelle colpevolizzanti o razziste. A pesare qui è la dimensione del tempo. Impossibilitati a lavorare perché in attesa dei documenti – ovvero, in attesa di essere ricevuti dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale (5) di competenza (quella per l’Italia nord-orientale ha sede a Gorizia), i ragazzi devono impiegare le giornate in attesa che la struttura apra i battenti. Mi raccontano che quando non partecipano alle attività organizzate da ICS, come ad esempio il corso d’italiano, trascorrono la maggior parte del tempo passeggiando per la città, scambiando qualche parola con le persone che incontrano. I tempi per ottenere un appuntamento presso la commissione sono spesso lunghi, arrivando talvolta fino a 6-8 mesi, lamentano gli operatori. La temporalità si configura come attesa: di essere riconosciuti, o anche solo della fine della giornata.

Il racconto di Sarjo

Sto chiacchierando con un operatore ICS quando arriva Sarjo; aspettavo di poter parlare con lui perché, stando a quanto mi dicono, è uno dei ragazzi che conosce meglio l’inglese. Lo invitiamo a sedersi con noi ma rifiuta, rimanendo in disparte. La mia presenza cambia le dinamiche all’interno della struttura. Sarjo non osa sedersi vicino a noi perché ci sono io, donna bianca: retaggio, spiega in seguito, dei mesi trascorsi in Libia, dove a causa del forte razzismo nei confronti degli africani sub sahariani per un gesto simile avrebbe rischiato il linciaggio. Scambiamo qualche battuta e, rassicurato, inizia a raccontarmi la sua storia. I ricordi sovvengono in maniera frammentaria, episodica. C’è inoltre l’ostacolo della lingua, dal momento che la conversazione avviene in inglese. Infine io scelgo di ascoltare, e solo in un secondo momento avanzare delle domande. Tutto ciò mi rende impossibile riportare in maniera letterale il suo racconto.

Il Gambia è un lembo di terra all’interno del Senegal retto dal presidente Yahya Jammeh, soprannominato con amara ironia “the professor” a causa della sua laurea presso l’ex  US Army School of the Americas. A causa della povertà, dell’assenza di diritti e di lavoro, moltissimi giovani fuggono dal paese senza possibilità di ritorno, poiché in tal caso verrebbero arrestati in quanto disertori. Questo, come la prima parte del viaggio, è raccontato senza particolari concessioni al sentimento, con un naturalismo disarmante: raggiungere il Senegal prende un giorno di viaggio. Il tragitto Senegal-Mali due giorni. La traversata della Nigeria tre. Dalla Nigeria si parte alla volta della Libia, a bordo di un pick-up dove sono stipate 35 persone. La traversata del Sahara dura due settimane, durante le quali ci sono i primi morti. È all’arrivo in Libia che Sarjo cambia espressione. Immagini dall’interno della guerra civile si susseguono. Le ronde di bambini armati, che si ripetono nella storia come figura della follia nella sua accezione più negativa; le iniezioni letali praticate negli ospedali, per cui coloro cui ne è giunta voce evitano di curarsi, anche se malati o feriti, sono solo alcune. A Sebha, prima città incontrata sulla rotta dei migranti, il gruppo viene rapito da criminali locali – pratica comune – ma riesce a fuggire. Altri tre giorni fino a Tripoli, senza sosta. Per entrare a Tripoli occorre avere degli amici, ancora una volta per il rischio di rapimenti. Una delle categorie più temibili, apprendo con sorpresa, sono i tassisti, che usano i loro mezzi per sequestrare i passanti. Nella città, il gruppo si stabilisce in una “casa” – quattro mura, senza servizi igienici né pavimentazione, con la sabbia nuda a terra – affittatagli da un non meglio specificato “gangster”. Qui trascorrono le giornate nell’attesa; bisogna stare nascosti a causa della guerra che imperversa all’esterno: oltre i bombardamenti, violenza e sciacallaggio sono all’ordine del giorno. Sopravvivono grazie all’elemosina di qualche buon’anima venuta a conoscenza della loro esistenza. Con una pagnotta al giorno puoi considerarti fortunato. Molti si ammalano a causa delle condizioni di sopravvivenza. Dopo un mese, il primo tentativo di traversare il Mediterraneo. Il gommone ha un guasto, molti annegano, i sopravvissuti vengono incarcerati dalle autorità libiche. Gli arti anchilosati a causa della posizione seduta in cui si è irrigiditi a causa della mancanza di spazio all’interno del carcere. L’evasione, il secondo imbarco. “There are only three possibilities – mi spiega con il suo consueto realismo – you die, you go to jail, you reach Italy”.

Quelli che non sono morti approdano a Trapani. Sarjo ricorda con un sorriso la Sicilia perché è dove gli sono state donate le sue prime scarpe. Me le indica, semplici ciabatte di plastica. Da Trapani vengono assegnati a Trieste perché – mi spiega un operatore – è considerata una realtà virtuosa e il Ministero assegna i richiedenti asilo dove sono presenti strutture libere.

Note:

1  <http://www.repubblica.it/solidarieta/profughi/2014/10/01/news/profughi_afgani_gorizia_trieste-97090586/>
2  A. Sayad, citato in A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, 2005, p. 13.
3  <http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2014/10/16/news/isontino-415-profughi-60-all-addiaccio-1.10123041>
4  <http://www.icsufficiorifugiati.org/>
5 <http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/asilo/sottotema0021/Le_Commissioni_Territorialix_funzioni_e_composizione.html>

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