Le vite degli uomini “infami” 2.0. Invidia e orgoglio di classe di un operaio stagionale

 di Andrea Muni

Come si fa la storia delle persone, delle vite, che non valgono, che non meritano, che non hanno storia? Come si fa la storia di quella massa informe, brulicante che è lo scorrere quotidiano delle vite che lavorano, amano, muoiono – senza lasciare traccia – allo scoccare di ogni secondo del mondo? La storia di chi non può (o non vuole) prendere parola, distanza. La storia di chi ha avuto la (s)fortuna di non poter alzare la testa e immettere nel discorso – nelle cose ufficialmente dette o scritte – il proprio singolare brandello di verità. La storia di chi è, e sarà sempre, solo una seconda o terza voce nel coro della nostra epoca e della nostra cultura, in questa danza macabra da cui la vita (la vita “vera”) ha purtroppo preso congedo ormai molto tempo fa.

Michel Foucault ne Le vite degli uomini infami ci ha regalato un assaggio del modo in cui una simile “storia” può prendere corpo. Lo ha fatto riportando alla luce le vite di persone blandamente “pericolose” e “devianti”, gente non importante, i cui brandelli discorsivi sono rimasti impigliati quasi per caso nelle maglie (solitamente troppo larghe) della Storia. Le lettres de cachet raccolte in questo libro sono infatti delle lamentele, lagnanze attraverso cui i cittadini francesi del Sei e Settecento denunciavano in modo roboante al Sovrano le persone che avevano in odio chiedendo che fossero prelevate e punite. Storie esagerate, enormi nella loro banalità, raccontate al Potere da persone comuni che volevano liberarsi e far rinchiudere o giustiziare parenti, mogli, conoscenti, per “vendicare” piccoli odi quotidiani, annose faide, beghe o sgarbi mai sopiti.

Fare la storia di ciò che è passato, o appena passato, significa sempre anche fare una storia “interessata” del nostro presente. Fare la storia di quegli uomini e di quelle donne è anche fare la nostra storia, la storia di un presente che non deve fermarsi timoroso alle proprie soglie, ma ripiombare piuttosto su se stesso come un lapsus, un ritorno di fiamma; un presente che deve osare cogliere se stesso alle spalle, alla sprovvista; che deve provare, assaporare il gusto ferroso di una semi-consapevole autoaggressione.

Vorrei anch’io disporre nella sagoma del presente il mio tassello di storia, un pezzetto della infinita e microscopica storia della vite degli uomini infami. Confesso subito che l’interesse e il piacere che provo nel farlo sono direttamente legati alla necessità viscerale che sento, da tempo ormai, di nutrire una parodistica controcultura, di inventare una nuova storia da raccontarci. Il bisogno, la necessità quasi-fisica, di nuove illusioni, di nuovi autoironici miti, modelli ed eroi da incarnare e giocare insieme contro il discorso dominante in cui si ordinano gli ormai esausti valori della nostra società.

Scene dalla stagione

Ci sono posti in cui la differenza di classe non ha bisogno di teorizzata. La differenza di classe, in effetti, è un concetto, ma la sua carne, la sua realtà, è piuttosto l’invidia: l’invidia di casse (come sapeva bene Elio Petri vedi il monologo de La proprietà non è più un furto). È strano, è anacronistico, dirò di più, è surreale. L’invidia di classe esiste, ed è lo strumento attraverso cui – per limitarci al nostro Paese – il mondo si divide tutti i giorni, in modo variabile, tra quelli che lottano, si affannano, odiano e amano, cercando di conquistare posizioni, lavori, status esistenziali ambiti, degni, all’altezza delle aspettative della presunta età dell’oro in cui siamo stati cresciuti; e quelli che sono stanchi, finiti, quelli che hanno gettato la spugna – o che non l’hanno nemmeno mai voluta (o potuta) prendere in mano. Per fare la storia del nostro presente bisogna viverci dentro, bisogna vivere nel presente in cui abbiamo scelto di (o in cui siamo costretti a) vivere. Per raccontare al presente le vite degli uomini infami, per farne la storia in diretta, non c’è altro modo che esserli – poco importa se per necessità o per vocazione.

Per quasi quindici anni, oltre a occuparmi di cultura, sono stato un lavoratore stagionale, un lavoratore che ha vissuto dal di dentro questa differenza di classe così particolare, così surreale, così tragicomica, e in fondo – a tratti – così stupidamente romantica. Nessuno ha mai progettato di fare lo stagionale, nessuno ha mai progettato di lavorare come uno schiavo per cinque o sei mesi all’anno, come aiuto cuoco, giardiniere, bagnino, manutentore, trattorista, receptionist, per poi vivere il resto dell’anno con la disoccupazione e/o lavoretti in nero.

Sono, siamo, i sottoproletari del litorale. Tra i più giovani ci sono i vitelloni e ci sono i bravi ragazzi che credono di potersi fare le ossa per un mestiere (di solito gli aiuto cuoco che hanno fatto l’alberghiero); ci sono i drogatelli che attraversano le loro prime crisi di identità e gli erotomani incapaci di pensare ad altro che all’organo femminile considerato in tutte le sue forme e prospettive. Spesso i giovani riescono a conservare la vigorosa consapevolezza, la certezza, la speranza che per ora va bene così, che questo è un periodo transitorio, che serve per far soldi e per poter cazzeggiare d’inverno, ma che poi il nuovo, il bello, la vita vera, arriveranno. Tra i meno giovani, dai 27 ai 40, ci sono i laureati e le laureate senza lavoro, gli ex tossici, gli stranieri e le straniere che lasciano casa e famiglia per venire a far soldi e prendersi un po’ di libertà dalla monotona vita coniugale; ci sono quelli che non avevano voglia di studiare e quelli che in inverno lavorano in nero per lo zio falegname e una volta al mese dilapidano mezzo stipendio nel primo bordello austriaco oltre confine. I meno giovani sono stanchi, delusi: per un altro anno sono qui, un altro anno che è passato senza che si siano affacciate né la voglia né la possibilità di cambiare qualcosa nella propria vita. Oltre i quaranta anni ci arrivano solo i veterani della stagione: quelli che o sono andati definitivamente fuori di testa e non sanno più vivere senza – perché sappiatelo, la stagione dà dipendenza, una dipendenza morbosa, che ha a che fare con la scomparsa del tempo, con la sua stordente ciclicità -, o quelli a cui davvero in tutta la vita non è saltato fuori niente di meglio. I veterani raccontano con soddisfazione, senza quasi il minimo sospetto di avere fatto gli schiavi per tutta la vita – che sono felici di non dover più lavorare in spiaggia di giorno e al forno di notte; sono quelli che hanno domato – o per lo meno imparato a gestire – la grande passione di ogni lavoratore stagionale dell’alto Adriatico: l’alcol. Ma i veterani sono anche quelli che ti confidano – ovviamente dopo due litri di vino, perché loro sì che hanno imparato a gestire l’alcol (!) – che quando scende la sera arrivano puntuali i pensieri, le inquietudini, i ricordi di una vita passata che, con la scomparsa de sole, riaffiorano, si fanno coraggio e cercano di incrinare la perfetta ripetitività di quelle giornate di lavoro calde, identiche, alienanti, oppiacee.

Ho ascoltato un trattorista-manutentore di una spiaggia teorizzare con singolare finezza la necessità logica e psicologica di finirsi, con qualsiasi mezzo possibile, al termine della giornata; la necessità di annullare il tempo che separa un giorno di lavoro dall’altro, come se si trattasse di un’unica eterna giornata di lavoro, sempre identica a se stessa, che replica senza fine il suo apparentemente impossibile intreccio di stress e noia. Un ragazzo più giovane, attraente e playboy, diversamente da quell’altro, sosteneva invece l’importanza, teneramente nevrotico-ossessiva, di non incrinare con iniziative autonome la perfetta e monotona regolarità di una giornata di lavoro in spiaggia come bagnino di terra, quella giornata sempre identica in cui alle dieci il signore (sempre diverso) dell’ombrellone F2 verrà a chiedere di stringere le viti allentate del lettino (sempre lo stesso), e tu lo sai che sono allentate, ma è alle dieci che il cliente verrà, ed è alle dieci che avrai quella piccola cosa da fare.

Il tempo è fermo, la vita è ferma. Il tempo è puramente prostituito in cambio di denaro, l’alienazione del vecchio Marx è una quotidianità individuale, esistenziale, privata. Così come sono alienati i “clienti”, i turisti grazie a cui abbiamo un lavoro. Il turista del posto di mare nazional-popolare è pure lui un alienato, un bambino sperduto, frodato e raggirato in ogni modo, un uomo medio che non ha interesse per grandi viaggi, grandi scoperte, avventure clamorose, affascinanti e – pur sempre – autoreferenziali. Ci sono i festaioli dei paesi limitrofi, che sono già dentro l’happy hour e arrivano a frotte nel week end per spaccarsi di alcol e fare i matti; e poi invece ci sono le assenze illustri. Le assenze di quelli che al mare non ci vengono perché è un posto di alienati e buzzurri, ma che in fondo sono comunque alienati e buzzurri quanto chiunque altro; quelli che “ma come fai a fare il bagno in questo mare, dopo essere stato in Liguria, in Sardegna”. Non è il turista in sé “l’Altro”, il “nemico”, l’ “avversario”. Il nostro “altro” è paradossalmente chi ha conquistato – o lotta per conquistare – qualcosa di meglio, qualcosa d’altro, questa è la nostra invidia di classe. I turisti li compatiamo, i padroni li raggiriamo (per quanto ci riusciamo), ma quelli che non sono qui, quelli – a volte – li invidiamo. Perché noi apparteniamo alla scena, siamo i nuovi servi della gleba, apparteniamo alla spiaggia, alle cucine, agli hotel.

Noi siamo parte del paesaggio, uno sfondo; le persone passano, vengono e vanno, ridono, si divertono, si annoiano, si immaginano di vivere, e tu le incontri, ci vai a letto, le conosci in maniera fugace, immagini le loro vite, ne ascolti o ne un intuisci un brandello puramente superficiale, liscio come uno specchio; sei un indigeno, sei parte del luogo, parte della fauna.

Era un sogno? O era vero?

A questo punto sembrerebbe obbligato chiudere con la nota di speranza, la nota positiva. Si potrebbe per esempio chiamare in causa il fatto che in questo microcosmo surreale i lavoratori stagionali hanno conservato più di altri un certo orgoglio (e una certa complicità) di classe, una classe che non esiste, polverizzata nel marasma di progetti e speranze di vita fallite, mai raggiunte o ancora più spesso mai neppure elaborate. Eppure noi possiamo ancora riunirci, stare insieme, possiamo farlo davvero solo per lo scopo di stare insieme (come diceva Marx nei Manoscritti), possiamo farlo perché siamo già irrimediabilmente alienati e fuori dai giochi, perché non siamo nemmeno lavoratori nel senso forte della parola (la maggior parte di noi ha contratti ridicoli, può essere cacciato da un momento all’altro): siamo i servi degli schiavi.

Non so se questa sia una nota di speranza o meno, non so se il senso di vuoto, di mancanza di prospettive, se il disgusto malcelato per questa vita, se l’orrore di essere qui ancora, un anno ancora, possano davvero essere un motivo bello, esaltante, gradevole per spiegare il dato surreale che – alla fine, paradossalmente – qui qualcosa come un orgoglio di classe (insieme alla sua malata sorellina “invidia”) di fatto esiste ancora. Esiste senza che il nome di Marx o la parola comunismo siano mai pronunciati, esiste spontaneo, bruto, senza speranze di redenzione o rivoluzione, ma – anche se forse solo nella mente dell’alienato che io stesso sono – in qualche modo esiste. O forse non esiste, ma se esistesse – per concludere cercando di inventare e giocare insieme un nuovo mito – sono certo che ci sentiremmo più felici, più pieni, più soddisfatti, pur nella nostra condivisa alienazione, di quelli che qui non ci verranno (e non ci verrebbero) mai, né da lavoratori né da turisti; quelli che preparano la vita, che desiderano e progettano ancora, che ne hanno la forza, la voglia, la disponibilità economica.

Loro sono i nostri veri avversari di classe, sono loro che odiamo e invidiamo, forse soltanto perché in fondo vorremmo essere come loro, forse perché in fondo quello che vorremmo è soltanto trascinarli giù con noi perché li amiamo, perché – in qualche modo – i casi della vita ci hanno indotto a credere che davvero la soddisfazione e la felicità siano altrove che in ciò che si può avere, ottenere, conquistare, accumulare come un bene, come un’esperienza privata, indipendentemente che si tratti di un viaggio, di un lavoro, di un amore o di un figlio.

Ecco perché sarà solo facendo della nostra vergogna, della nostra infamia e della nostra banalità il nostro orgoglio che troveremo la forza di lottare, di giocare, di combattere affinché quel giù diventi un su, quel grigiore una luce, affinché quest’invidia e quest’odio di classe, che ci uniscono, si convertano in una fiera e goduta offerta di complicità.

“Io, come una fabbrica non viva, eppure sinistramente attiva nel generare concetti e parole, ho forse ancora il diritto di dire di me stesso cogito, ergo sum ma non vivo, ergo cogito. Il vuoto “essere” mi è garantito, ma non già la vita piena e vivente; il mio sentimento originario mi assicura soltanto che io sono un essere pensante, non un essere vivo, che io non sono un animal, bensì al massimo un cogital. Regalatemi prima la vita e da essa poi vi creerò anche una cultura! – così grida ogni singolo uomo di questa prima generazione, e tutti gli altri si riconosceranno tra loro in questo grido. Chi regalerà loro la vita?” (F. Nietzsche)

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