Se “dio è morto”, tutto è permesso?

di Francesca Ruina

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“Dio è morto… e quindi?”. Questo quesito compare per la prima volta implicitamente, in forma di affermazione, nel romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevskij; una domanda che rappresenta ancora oggi una delle poste in gioco politico-culturali più scottanti dei nostri giorni, continuando senza sosta a riproporsi come problema fondamentale non solo della psicoanalisi e della filosofia, ma anche anche della pedagogia, della politica e dell’etica individuale.

Il rapido percorso che tenterò di delineare parte dalla gelida provincia russa in cui il celebre romanzo di Dostoevskij è ambientato, per concludersi poi – dopo aver attraversato l’inquietudine nietzscheana dell’“uomo folle” – con la riflessione lacaniana sul problema irrisolto che concerne la morte la di dio: dio è morto, “…e quindi? …e poi?” Partiamo, dunque, da Dostoevskij, in particolare dalla quarta parte dei Karamazov, intitolata Il fratello Ivan Fëdrovič. Qui un visitatore, che si trova al cospetto di Ivan, inizia il proprio discorso con le seguenti parole:

secondo me, non c’è proprio da distrugger nulla, ma è sufficiente che sia distrutta, nell’umanità, l’idea di Dio […]. L’animo dell’uomo s’innalzerà in un divino, titanico orgoglio, e farà la sua comparsa l’uomo-Dio […]. Per un Dio non esistono leggi! Dove un Dio si pone, ivi è già di per sé un luogo divino! Dove mi porrò io, ivi diventerà subito il più eminente dei luoghi… “tutto è permesso”, e tanto basta!

Figurarsi un mondo senza Dio sembra produrre nell’ospite di Ivan un qual certo stato di esaltazione; all’ospite sembra che un mondo in cui l’uomo si sostituisca alla potenza divina – riconoscendo feuerbachianamente nient’altro che la propria immagine in quel dio che per secoli ha tanto temuto – possa essere un mondo finalmente libero dalle catene dell’umana schiavitù. Questa divinizzazione dell’uomo consisterebbe quindi in un sostituirsi alla Legge, invece di sottostarvisi, rappresentando così una liberazione da quei diktat morali provenienti dal grande Altro onnipotente, panottico e invisibile. Per l’ospite di Ivan accartocciare l’ontologia giudaico-cristiana di un Dio senza volto (ma tutto voce) a cui si deve obbedire senza se e senza ma significherebbe, quindi, antropomorfizzare quella potenza divina e irrimediabilmente “altra”, rendendola finalmente umana, concreta e tangibile. Uno squarcio di sole sembra per un attimo aprirsi nel gelido cielo di Russia, un raggio di libertà pare filtrare dalla morte di dio e dal suo inevitabile “.. e quindi?”, per dirci che in fondo, se dio è morto, allora “tutto è permesso”. O forse no.

La reazione di Ivan alle parole entusiaste del visitatore ci introduce infatti in tutt’altra dimensione: “Ivan rimaneva lì seduto, serrandosi con le mani le orecchie e fissando per terra: aveva incominciato a tremare in tutta la persona”. Ivan, dopo il discorso dell’ospite, vibrando come una foglia autunnale che il vento della contingenza farà inesorabilmente precipitare, non può fare a meno di chiedersi: “l’uomo […] come vivrà dopo questo? Senza Dio, e senza la vita futura? Ciò significa dunque che ora tutto è permesso, tutto si può fare?”. Ecco che l’affermazione esaltata dell’ospite, “tutto è permesso”, è ora rovesciata e pronunciata da Ivan in tutt’altra tonalità emotiva: nell’orrore. Alla sola idea di un godimento assoluto, di una libertà incondizionata, di una soggettività piena e totale, il personaggio dostoevskiano sprofonda, comprensibilmente, nell’orrore.

È proprio all’altezza di quest’ambivalenza, di questo schizofrenico disorientamento, di questa oscillazione tra Ivan e il suo ospite che – un paio d’anni dopo la pubblicazione dei Karamazov – “l’uomo folle” di Nietzsche precipiterà sulla scena della storia. Siamo nel celebre aforisma 125 de La gaia scienza, dove un proto-Zarathustra annuncia a gran voce la morte di Dio. Con il lume fioco della sua lanterna, il “folle uomo” si addentra in un mercato – luogo per eccellenza degli scambi, di merci ma soprattutto di valori. Questo mercato, però, è ben lungi dall’essere uno spazio in stile agorà greca, cuore pulsante della polis da un punto di vista economico, politico e religioso. Ci troviamo piuttosto catapultati in uno scenario à la De Chirico: uno spazio piatto, senza punti di riferimento, dove il tempo si scioglie nell’opacità di un eterno presente in attesa. Qui non c’è Diogene che se ne va in giro con la sua lanterna, sarcastico e orgoglioso, in cerca dell’uomo; c’è piuttosto un folle umano – troppo umano! – che è alla disperata ricerca di Dio nello stesso istante in cui ne afferma la tragica scomparsa (confessandosi per di più compartecipe del suo assassinio).

Se lo scenario platonico e neoplatonico dipingeva un mondo delle idee perfettamente chiaro e luminoso, un universale su cui depositare con appagamento quasi post-orgasmico il proprio sguardo, ora con Nietzsche ci troviamo dinnanzi a un “infinito nulla” con cui l’uomo moderno deve quotidianamente fare i conti. Una voragine, un “eterno precipitare”, che l’uomo stesso ha contemporaneamente voluto e temuto, profondamente desiderato e terribilmente odiato.

Questo è il paradosso che rende l’evento della morte di Dio insopportabile: è l’uomo che l’ha ucciso. Non è stata una morte accidentale, ma un vero e proprio assassinio, compiuto da uomini che nemmeno riescono a scorgere il sangue divino che ha macchiato per sempre le loro mani. Come se si fossero pugnalati alle spalle, il sangue di dio non ha altro colore che quello della loro angoscia. Un fardello troppo pesante da sopportare, non solo per quegli atei ingenui che Nietzsche dipinge come gli interlocutori dell’uomo folle nell’aforisma 125, ma forse un fardello troppo pesante anche per la fragilità stessa del Nietzsche uomo: “vengo troppo presto […] non è ancora il mio tempo”, dice il folle uomo, resosi conto dello stupore dipinto sui volti degli uomini del mercato.

Gli uomini sembrano aver abbattuto l’Ideale, l’Idolo per eccellenza, e ora dovrebbero scorgere in quel posto vacante la possibilità di una rinascita tutta umana. L’uccisione di Dio sembra condurre alla libertà dell’uomo, ma quel che Nietzsche ci indica nel suo aforisma è tutt’altro, vale a dire che l’uomo – da quando ha ucciso dio – ha orrore di quel che ha fatto, a punto tale che non ha più smesso di far altro che cercare di rianimarlo, ad esempio identificandosi in maniera morbosa con un Io che non esiste; inventandosi e socializzando un Io razionale, e morale, la cui funzione unificante e simbolica è stata utile nell’ultimo secolo e mezzo per supplire, in maniera sbiadita, a quella divinità che – come l’Io – è morta da sempre perché non è mai realmente esistita.

Ecco il tremore di Ivan e l’amarezza provata dal folle uomo nietzscheano: l’essenza illusoriamente antropocentrica dell’uomo è soltanto l’immagine riflessa di un Dio amputato della sua prima lettera e trasformatosi in un Io. Uccidere il grande Altro simbolico e valoriale incarnato da Dio, significa infrangere nello stesso tempo anche lo specchio in cui l’uomo riflette – e costituisce – la propria immagine identitaria. E questo accade, come dice bene Lacan nel Libro XI del suo Seminario, perché Dio non è morto, ma “Dio è inconscio”. Dio è in un ipotetico “fuori” eliminabile, per il semplice fatto che non esiste un fuori, non esiste mai qualcosa di completamente “altro” – e di conseguenza, nemmeno qualcosa di completamente “dentro”, di completamente “sé”. Nel Seminario VII Lacan riassume questo discorso con la celebre boutade “Dio è morto, ma questo, lui, dio, non lo sa”.

Ancora, nel 1969, durante l’unico dei quattro “improvvisi” progettati da Lacan al centro sperimentale universitario di Vincennes, a uno studente che lo contesta dicendo che bisogna “andare fuori a cercare i mezzi per buttare all’aria l’Università”, Lacan risponde: “ma fuori da cosa? Perché, quando uscite di qui diventate afasici? Quando uscite, continuate a parlare, di conseguenza continuate ad essere dentro”. Ecco il punto, ecco l’inghippo. Da Dio come dall’Università, da ogni sistema di cui la prima lettera maiuscola dipinga la struttura simbolica, non si esce. Non si esce perché l’uomo è effetto del linguaggio e dall’alterità. Uccidere questi grandi Altri significa uccidere con loro anche il soggetto che (necessariamente) li produce.

Come dice Lacan nel Libro II del suo Seminario, in risposta alla frase dostoevskiana, “sappiamo bene, noi analisti, che se Dio non esiste, allora più niente è permesso”, e ciò proprio perché, eliminato l’Altro, è il soggetto a diventare il moralizzatore di se stesso.
Il pendant contemporaneo del grande Altro è il Super-Io, un Super-Io che è “Kant con Sade”, dove cioè legge e godimento si fondono fino a creare quel magico mondo di plastica, quel divertissement che regge e alimenta l’odierno sistema capitalistico.

Forse, dunque, la questione non è tanto l’uscita dal sistema – visto che è l’ordine simbolico a costituire l’uomo in quanto tale – o l’uccisione di “Dio”, ma l’interrogazione su una possibile torsione del sistema stesso. Se uccidere Dio significa divinizzare l’uomo (tra l’altro, sadianamente) forse questa non è affatto la via per la libertà, ma una scorciatoia per riempire bulimicamente un vuoto strutturale con un pieno fittizio.
Se continueremo a credere che la questione della libertà si limiti a un decostruzionismo di strutture da sostituire (inevitabilmente) con altre strutture solo apparentemente meno soffocanti delle prime, continueremo parossisticamente a sbattere contro quel “più nulla sarà permesso”. Un’autocensura che sarà l’uomo stesso – quell’uomo che al pensiero critico preferisce dicotomie e vuote distruzioni – ad essersi creato per supplire all’angoscia di quel “e poi”, di quel “dio è morto.. e quindi?”.

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