“Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro”. Un estratto del nuovo libro di Gavin Mueller

di Gavin Mueller

(traduzione di Valerio Cianci)

Pubblichiamo in anteprima, per gentile concessione delle amiche e amici di Nero Not, un estratto del libro di Gavin Mueller Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, uscito il 26 gennaio, e tradotto per l’edizione italiana da Valerio Cianci. La questione luddista, il rapporto con le nuove tecnologie e l’urgenza di una nuova “ecologia del lavoro” sono temi già emersi sulla nostra rivista (qui), che riteniamo importante continuare a diffondere e divulgare. Le note sono omesse per favorire la leggibilità [Ndr].

La storia non è stata clemente con i luddisti. L’eredità della loro resistenza alle macchine è stata generalmente intesa come una forma di tecnofobia; e, per via della contemporaneità fra le loro rivolte e l’avvento della produzione di massa, sono spesso stati associati a un irrazionale terrore del progresso. I critici della tecnologia finiscono o con il disconoscere enfaticamente l’eredità luddista, o a professare simpatie fin troppo incontrollate. E se da una parte lo scrittore di tecnologia Andrew Keen, parlando della sua avversione ai social media, insiste a ribadire che «non sono un luddista», dall’altra le «confessioni di un luddista» sono diventate un genere letterario vero e proprio, al cui interno troviamo tanto educatori quanto musicisti e persino specialisti delle tecnologie dell’informazione. L’associazione tra luddismo e tecnofobia è stata essa stessa motivo di una simpatia diffusa. Nel 1984, per esempio, Thoms Pynchon domandava ironicamente se fosse «ok essere un luddista», mentre gli anni Novanta hanno assistito alla nascita del cosiddetto movimento neoluddista che, in una nebulosa coalizione contro le tecnologie allora contemporanee, accorpava critiche sociali assortite e ambientalismo radicale. Benché nel loro manifesto specificassero che non rinnegavano la tecnologia in quanto tale, la generalizzata ostilità dei neoluddisti per l’ingegneria genetica, la televisione, i computer e le «tecnologie elettromagnetiche» tradiva un debito nei confronti delle politiche anticivilizzatrici tipiche dell’anarco-primitivismo. Posizioni discutibili come il sostegno all’Unabomber Ted Kaczynski e i conseguenti flirt coi movimenti secessionisti da parte di una figura di riferimento come Kirkpatrick Sale (autore di una suggestiva storia del luddismo), emanano un distinto sentore di pressappochismo. È nella natura dei miti dimostrare una certa flessibilità e indeterminatezza al momento della loro applicazione. I luddisti, appellandosi alla figura di un re immaginario, ebbero senza dubbio un carattere mitico per i loro contemporanei, ed è proprio la costruzione di un mito legato a un soggetto collettivo che ha permesso al luddismo di divenire una locuzione d’uso corrente anche a duecento anni di distanza dai fatti. Come sostiene il teorico dei media Marco Deseriis, la potenza retorica dei luddisti deriva dall’aver saputo articolare lotte altrimenti solo vagamente connesse all’interno di un insieme coeso di pratiche e narrative fra loro collegate, secondo quello che Deseriis definisce «un assemblaggio di enunciazione»: una rete di «azioni pragmatiche ed espressioni semiotiche allo stesso tempo connesse e relativamente autonome». L’utilizzo del «nome improprio» Ned Ludd, secondo Deseriis, «serve proprio a prevenirne la cristallizzazione, incorporandovi una pluralità di usi difficilmente riducibile a un’unità». Dopotutto, i luddisti non furono i primi a lanciare attacchi organizzati alla produzione industriale: i telai, nello specifico, erano da anni oggetto di devastazioni, e il parlamento inglese, già nel 1788, aveva approvato un atto destinato alla protezione dei nuovi macchinari. Per i ricchi e i potenti queste nuove macchine erano un modo per accumulare potere, e lo stesso valeva per le classi lavoratrici su cui speravano di esercitarlo. Di conseguenza manomissioni e distruzioni ne hanno sempre accompagnato l’introduzione, dovunque sia avvenuta. Marx evidenzia come la protratta ostilità nei confronti dell’energia eolica e idrica si possa far risalire ad almeno gli anni Trenta del XVII secolo. Le macchine industriali hanno sempre ispirato una particolare avversione non solo perché demolivano i modelli di vita tradizionali, ma anche perché logoravano e sfiancavano coloro che erano destinati a utilizzarle. L’enorme complesso degli Albion Mills di Londra, probabile fonte di ispirazione del verso di Blake sugli «oscuri mulini satanici», venne dato alle fiamme nel 1791, verosimilmente per mano degli stessi lavoratori che, dalle rive del Tamigi, accolsero entusiasti l’incendio, ignorando le richieste d’aiuto delle autorità impegnate a domarlo. Gli scrittori satirici dell’epoca etichettarono immediatamente chiunque gioisse della distruzione come pericoloso radicale che parteggiava per forme tecnologiche antiquate. A Lione, nel 1805, i tessitori di seta accolsero l’avvento del telaio Jacquard cercando di ucciderne l’inventore e di distruggere il macchinario sulla pubblica piazza. Dopo la breve fioritura delle rivolte luddiste, la distruzione di fabbriche e macchinari continuò in Francia, negli Stati Uniti (dove una serie di tessitorie prese fuoco, verosimilmente per incendio doloso), in Silesia e Baviera. Considerata la lunga storia di rivolte dei lavoratori contro i macchinari industriali, perché sono proprio i luddisti a proiettarvi la loro ombra? Di sicuro non solo per la loro abilità a raccontare storie. Dopotutto la Corona non avrebbe dispiegato l’esercito per distruggere un mito. L’ombra dei luddisti svetta sulle altre per via della potenza della loro lotta, sia dal punto di vista letterario che da quello dei risultati. Se E.P. Thompson da un lato ha cercato di riscattare i luddisti dal «profondo senso di superiorità dei posteri» dimostrando una solidarietà senza riserve, dall’altro non ha esitato a constatare che le reazioni violente all’industrializzazione «potrebbero essere state avventate. Cionondimeno sono sopravvissute a quei tempi di intensi sconvolgimenti sociali. Noi no». È ammirevole la capacità di Thompson di collocare i luddisti nella loro congiuntura specifica, anziché assecondare il punto di vista che li reputa un mero incidente sulla strada che porta inevitabilmente al presente. Ma possiamo spingerci oltre. La storia ha una forma, ma questa non viene predetta e meno che mai dettata dagli strumenti e dalle tecnologie a nostra disposizione. Piuttosto, come sostiene Marx, la storia assume la forma delle lotte di coloro che vi hanno partecipato. Il fallimento dei luddisti non è in sé un capo d’accusa: il successo non è un criterio valido per giudicare un’azione prima o durante il suo svolgimento. E, come spero di dimostrare, il luddismo non è stato per nulla un movimento inutile. La nostra storia è la stessa storia dei luddisti, e la loro concezione della tecnologia – come elemento politico che poteva, e in molti casi doveva, essere contrastato – è riemersa in ogni forma di militanza successiva, incluse quelle attuali. Questa tradizione può insegnare molte cose, persino ai più radicali tecno-entusiasti.

L’opposizione luddista alla tecnologia, bisogna ribadirlo, non era semplice tecnofobia. Come evidenzia Sale, molti luddisti erano tessitori o lavoratori tessili qualificati in grado di manovrare strumenti complessi. La loro rivolta non era contro le macchine in sé, ma contro la società industriale che minacciava il loro stile di vita, e che aveva trovato nelle macchine la propria arma principale. Sostenere che lottavano contro le macchine ha senso quanto dire che i pugili lottano contro i pugni. Secondo la descrizione di Sale, le rivolte dei luddisti non sono mai state semplicemente contro le macchine, ma contro «ciò che quelle macchine rappresentavano: la concreta, quotidiana prova del fatto che erano costretti a piegarsi a forze al di là del loro controllo». La distruzione dei macchinari era solo una fra le tante tecniche utilizzate dai luddisti, riservata peraltro solo ai più intransigenti proprietari delle fabbriche, come parte di una più ampia strategia per implementare il potere dei lavoratori. I tessitori facevano appello a re Ludd nei loro tentativi collettivi di ottenere salari che permettessero loro di sopravvivere e nelle loro richieste di risarcimento indirizzate al governo. Una lettera del 1812 indirizzata all’Home Office e recante l’indirizzo «Ministero di Ned Ludd, Foresta di Sherwood» dichiarava che «i telai di qualsiasi genere, i cui lavoratori non saranno remunerati nella valuta corrente del regno, verranno invariabilmente distrutti». Al contempo però, gli autori si impegnavano a proteggere le tessitorie dei proprietari che avessero accondisceso alle loro richieste. Lo storico Eric Hobsbawm, nel corso di una rivalutazione delle ragioni che spinsero i luddisti alla distruzione delle macchine, descrive le loro azioni come «una contrattazione collettiva mediante protesta». Per Hobsbawm «l’efficacia di questa tecnica è evidente, tanto come modo per fare pressione sui proprietari, quanto per garantire la fondamentale solidarietà fra i lavoratori». La distruzione delle macchine era un mezzo fra tanti, ma era anche una tecnica per qualcosa di diverso: la creazione di una lotta condivisa. Secondo Hobsbawm si tratta di una tattica estremamente coerente nel contesto dei primi anni del XIX secolo. «In quei tempi pre-socialisti, la classe lavoratrice era una folla, non un esercito» scrive; «scioperi informati, ordinati, burocratici erano impossibili». Qui Hobsbawm, evidenzia uno degli elementi fondamentali del luddismo: anziché dilungarsi sugli esiti donchisciotteschi del movimento, la sua analisi concentra l’attenzione sulla sua composizione di classe. Il concetto di composizione di classe, il tentativo di comprendere la classe nella sua dimensione politica ed economica in simultanea, fu sviluppato da teorici italiani come Raniero Panzieri, Sergio Bologna e Mario Tronti per rendere conto delle nuove forme di resistenza dimostrate dai giovani «operai-massa», de-qualificati a causa dell’introduzione di nuovi macchinari nelle fabbriche. La composizione di classe dunque è una risposta alla nozione che descrive la classe come categoria empirica preesistente – idea che si può facilmente trovare in un qualsiasi manuale di sociologia, secondo cui basta osservare il lavoro o il reddito di qualcuno per determinarne la classe. In senso marxista, invece, la classe è determinata dalle sue lotte. Come evidenziano gli scrittori di Zero Work, pubblicazione degli anni Settanta: «Per noi, così come per Marx molto tempo fa, la classe è definita dalla sua lotta al capitale, non [esclusivamente] dalla sua funzione produttiva». Secondo l’analisi di Hobsbawm, l’attività dei luddisti in quanto classe operaia va considerata a partire dalla composizione tecnica allora esistente: certamente gli operai non erano ancora organizzati in una massa disciplinata; erano invece un mélange di lavoratori che operavano nelle loro case o nei loro negozi, spesso con strumenti di loro proprietà. Separati fisicamente e senza fissa organizzazione, spesso si interfacciavano ai datori di lavoro mediante contratti individuali, e di conseguenza era impossibile per loro darsi alle forme di militanza di massa che associamo ai sindacati. Tuttavia, Hobsbawm si spinge oltre e suggerisce che sia stato proprio attraverso la distruzione dei macchinari che i luddisti si sono costituiti come classe, creando così legami di solidarietà.

Non è comunque il caso di affrontare simili fenomeni secondo la versione hegeliana delle analisi marxiane, e cioè in termini di un’empirica «classe in sé» che si trasforma in una politicizzata «classe per sé» – termini che per altro Marx stesso non ha mai utilizzato. Come evidenzia lo storico Salar Mohandesi, sebbene autori come Thompson si siano serviti di questo vocabolario per una definizione di classe che non si limiti alla banale riduzione economica, tale terminologia lascia poco spazio alla nascita improvvisa delle lotte, enfatizzando fin troppo la relazione fra queste ultime e una modalità di esistenza culturalmente separata. Piuttosto, possiamo pensare alle azioni dei luddisti e alle altre forme di rivolta contro le macchine come a pratiche di organizzazione politica. I lavoratori sono controllati e sfruttati a partire dalla loro composizione tecnica: dunque, a loro volta, sviluppano forme di resistenza necessarie a superare la loro divisione e a combattere il loro sfruttamento.

Nel caso dei luddisti si trattava perlopiù di lavoratori indipendenti la cui opposizione all’assorbimento nelle fabbriche si coniugava ad altre forme di resistenza, il cui obiettivo era la salvaguardia di elementi specifici del loro stile di vita e delle loro comunità. Ovviamente non potevano organizzarsi allo stesso modo dei lavoratori di massa, e non limitavano le loro lotte al posto di lavoro. Questa classe invece si organizzò attorno a una figura mitologica e collettiva – Re Ludd – e creò forme e pratiche di segretezza e di solidarietà comunitaria in modo da alimentare le lotte e al contempo proteggere chi vi prendeva parte. Erano pratiche che comprendevano anche giuramenti segreti, vincoli confidenziali (per le autorità infatti era un’enorme fatica riuscire a ottenere informazioni dai luddisti) e attività letterarie come la stesura di canzoni, poesie e lettere. Gli attacchi organizzati ai macchinari delle fabbriche e la loro distruzione non erano parte di una strategia isolata – erano invece la trama stessa della resistenza, la fibra che univa i tessitori come classe. Era una pratica di solidarietà.

È proprio da questo punto che prende le mosse il pamphlet “King Ludd and Queen Mab” dello storico Peter Linebaugh. Pensando alle pratiche di distruzione delle macchine come a una forma di solidarietà – uno strumento della composizione di classe – Linebaugh riesce a rendere conto in maniera univoca di una marea di lotte disparate e contemporanee, connesse all’ondata di attacchi all’accumulazione originaria che ha caratterizzato i primi anni del XIX secolo. Il capitalismo è stato costruito a partire da una serie di enclosures diffuse in tutto il globo, in un processo senza precedenti di disciplinamento della vita e dei suoi mezzi di sussistenza. «Il mondo veniva recintato (enclosed)», scrive. «La vita veniva rinchiusa all’esterno, le persone all’interno». I luddisti, lottando contro il ridimensionamento delle loro abilità causato da «macchine dannose per la comunità», occupavano un unico fronte nell’enorme lotta globale esplosa a partire dalle conseguenze del commercio del cotone, che collegavano entrambi i versanti oceanici – una lotta di cui facevano parte le contemporanee ribellioni dei nativi e degli schivavi nel Nuovo Mondo. Nel corso di queste rivolte, gli attacchi alle tecnologie di produzione erano una tattica comune. Le rivolte dei Creek (una tribù di nativi) sfociarono nella distruzione dei telai dei loro compagni collaborazionisti che iniziavano a costituire una nuova forma di commercio che si accompagnava alle brutalità dell’economia di piantagione. E proprio nelle piantagioni, dove il cotone aveva origine, gli schiavi distruggevano i loro strumenti così spesso che i proprietari «iniziarono a comprare attrezzature estremamente pesanti nella speranza che potessero sopravvivere a un maneggiamento violento», riducendo di conseguenza la produttività delle piantagioni. Come sostiene Linebaugh, «La distruzione dei macchinari agrari da parte di coloro i quali lavoravano nelle piantagioni appartiene a pieno titolo alla storia del luddismo. E non solo per la distruzione degli strumenti, ma perché anche loro facevano parte della ricostituzione Atlantica della forza lavoro tessile». Suggerisce insomma che ci sia una forma germinale di sforzo condiviso in queste lotte parallele contro un nemico comune.

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Gavin Mueller è autore di Media Piracy in the Cultural Economy: Intellectual Property and Labor under Neoliberal Restructuring, Routledge 2019. Scrive per Jacobin ed è membro del collettivo editoriale Viewpoint Magazine.

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