Terza Pagina – #4

“Balcon del Mar” – racconto anonimo

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Nel tempo si era affievolita in lui quella frenesia di viaggio, quella dirompente bramosia di mutamento. Adesso stringeva in mano il biglietto della corriera (7.535 colones) e guardava attraverso la fessura degli occhi – il sole lo aveva sorpreso dopo il cielo plumbeo degli ultimi giorni – quel mare calmo e verdastro. I cormorani sostavano sulle paline marcescenti, spiccando raramente e quieti il volo in larghi semicerchi per planare sull’acqua. La maglietta gli si stava incollando alla schiena. Pensava alla sera prima, a quanto già fosse distante dal “sé” di adesso: cinque ragazzi sulle sdraio nel piccolo e oscuro androne, quella moretta sedutagli accanto e la sua lascivia. L’aveva avuta pensando soltanto al dopo, allo stare finalmente solo, a letto, in attesa della sveglia pronta a scattare di lì a qualche ora. La cosa migliore che potesse fare era dimenticare il suo nome. Dimenticare che si stava muovendo, dove stesse andando, da dove venisse. Mentre gli era impossibile. C’erano a inchiodarlo quei due punti fermi: dov’era stato, dove doveva andare. In mezzo, soltanto quel fantoccio sballottato dagli eventi, quel suo corpo marionetta delle necessità. Lasciò il parapetto per fare quattro passi. La maglietta, smossa dalla brezza leggera, cercò di svincolare la chiazza di sudore facendogli attraversare la schiena da un brivido.

Marcos lo accolse nel patio dell’ostello, sfogliava una rivista ciondolando sull’amaca. Parlava solo spagnolo, ci volle un po’ prima che lo lasciasse finalmente in pace nella sua camera dopo avergli introdotto quelle misere cose che aveva da dire. Buttò la valigia in un angolo, si spogliò e appese i vestiti ad asciugare. Nascose il portafoglio sotto il materasso, infilò le chiavi nella tasca del costume e uscì sullo sterrato della via. Il piccolo paese si stendeva per un paio di chilometri lungo la costa, perdendosi nella vegetazione che arrivava fino al mare. L’ostello era l’ultimo avamposto umano prima della foresta che, con i suoi rami, riusciva quasi a toccarne il tetto. Attraversò la spiaggia, si infilò nell’unica via che a L attraversava la cittadina, raggiunse una seconda spiaggia magnifica e solitaria e tornò indietro.

«Quiero tomar una cerveza»
«Imperial o Pilsen?»
«Imperial»
Il barista si chiamava H., viveva lì da qualche anno, più o meno da quando un suo amico lo aveva chiamato per dirgli che gli serviva una mano e H., colta la palla al balzo, aveva lasciato la Spagna per trasferirsi lì. Viveva in una catapecchia sul terreno dell’ostello, Marcos gliela affittava per poco e lui non si lamentava. Lavorava, fumava, dormiva. Almeno finché i congos non venivano a saltare e urlare sul suo tetto.
«Salud y pura vida!»

I congos lo svegliarono alle 5 della mattina seguente. Le loro urla somigliavano a quelle di un essere umano in pericolo. Si affacciò alla finestra scrutando gli alberi senza vedere nulla. Tornò a dormire. Quando finalmente si svegliò il sole era già alto. Scese al primo piano e incontrò O. seduto sulla soglia della camera, la sigaretta in bocca.
«Did you hear that scaring sounds this morning? What the hell was that? … like a ripped man!»
«Yeeeees – replicò lui con la sua voce stridula – that shitty monkeys! Have you ever seen them? They are pretty cool!» e sghignazzò fissandolo.
O., svizzero, in viaggio per qualche mese attraverso l’America latina, pieno di domande sul mondo, gran fumatore. Passarono belle serate assieme: lui, O., H. e chi altro passava per l’ostello. H. aveva l’abitudine di passare il confine ogni tre mesi tornando carico di rum o, come lo chiamavano loro, ron. O. tirava fuori uno spinello e fumavano e bevevano parlando della ragazza al Balcon del Mar, dell’Organico e delle loro vite.

L’ultima sera aveva provveduto a prendere nel piccolo market del paese una bottiglia di vino quanto più possibile italiano. Una bottiglia senza pretese, dal costo assurdo, da affiancare ad altre quattro decisamente più popolari. «This is my last night here and I want all of you get drunk!» aveva sentenziato, ricevendo un discreto assenso fra gli astanti. Poi O., spostandosi, aveva urtato leggermente la bottiglia e quella, con altrettanta leggiadria, era rovinata a terra in mille pezzi. Schiamazzi, risate e bestemmie per lo più italiane erano saliti verso il cielo scuro e terso. Le stelle continuavano a bruciare e esplodere nella loro fusione, le onde ciondolavano lente sul mare lustro e impreziosito di rivoli argentini; sicuramente dall’altra parte del mondo qualcuno si svegliava, ora, con una limpida e fresca scintilla di vita negli occhi azzurri. Lì, il rosso del vino scivolava docile fra i piedi e le sedie, like blood, oscuro e primordiale.

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