Trieste Film Festival 35: un cinema specchio dell’Europa orientale (e non solo)

di Leonardo Sica

“Una lunga narrazione che in definitiva finirà per essere la cronaca di una pazzia” disse Julio Cortázar a proposito del suo anti-romanzo “Rayuela”. Indefinibile, ingarbugliato, fluido, stratificato, assurdo, riflessivo sono aggettivi che possono venir accostati (anche) al film Do Not Expect Too Much From the End of the World, ultimo lavoro del regista rumeno Radu Jude con cui il Trieste Film Festival ha deciso di inaugurare l’edizione di quest’anno.

In un bianco e nero contrastato, Angela attraversa freneticamente la città di Bucarest, sottopagata e al limite dell’esaurimento nervoso, filmando il casting per un documentario con presunti fini educativi su commissione di una multinazionale, fungendo al tempo stesso da autista e tuttofare. In formato verticale stile TikTok, grazie ad un filtro Angela si trasforma in Bobita, influencer barbuto di cui assistiamo agli sfoghi omofobici, populisti e razzisti. Si sovrappongono, in pulitissimi colori pastello, scene della storia d’amore tra una tassista e un suo cliente, tratte da un film sentimentale realizzato ai tempi della dittatura. A prima vista paralleli e alternativi, questi universi si rivelano poi inaspettatameante convergenti e coesistenti: un modo di prendersi gioco dell’immagine che rende il film, tra le altre cose, un’intrigante satira del media stesso.

La grottesca realizzazione dello spot occupa tramite un’unica inquadratura statica l’intera seconda parte del film ed è a suo modo un racconto acutamente satirico della società del consumo e della manipolazione dell’informazione.

Tramite liberi accostamenti, scaturiscono nel corso della pellicola continue intuizioni e riflessioni: le contraddizioni della Romania di oggi e di ieri, lo sfruttamento sul lavoro, l’ingiustizia sociale insita nella disuguaglianza economica, l’evanescenza della classe dirigente, il rovesciamento di realtà e finzione.

Smarriti nell’assurdità di questo mondo senza prospettive, vorticoso e frenetico, non resta altro che farsi una risata: dopotutto la fine del mondo è già iniziata, e non c’è da aspettarsi poi molto.

Facendo della conoscenza di sé stessi un presupposto per vivere una vita felice e per connettersi sinceramente con gli altri, la regista georgiana Elene Naveriani sembra indicare invece che è ancora possibile sentirsi a proprio agio nel mondo e percorrere, tra gioie e dolori, il proprio sentiero di vita: è in fondo questo ciò che ci trasmette il delicato e poetico Blackbird Blackbird Blackberry.

Incontriamo Etero, una donna di 48 anni, mentre sta raccogliendo delle more selvatiche ai margini verdeggianti di un villaggio: distratta dalla fiabesca comparsa ravvicinata di un merlo, perde l’equilibrio e precipita in un burrone, salvandosi per poco. L’apparizione dell’uccello, in molte culture simbolo di morte ma anche di trasformazione, preannuncia una svolta nella vita della protagonista, che ritornerà al villaggio e al proprio negozio di detersivi con rinnovato desiderio di autoconoscenza, determinata a superare i propri traumi e capace, dopo tanti anni, di scoprire l’amore in un improvviso risveglio emotivo e sessuale. Fieramente indipendente e determinata, immune alle critiche e ai pettegolezzi, Etero si sottrae con semplicità e genuinità alle convenzioni imposte dalla società.

Separata dal mondo, capace di gioire di piccoli avvenimenti e di guardare con speranza al futuro, eppure estremamente connessa, come dimostra la passionale e autentica storia d’amore con Murmur, Etero è in qualche modo un equivalente rurale dell’Hirayama di Perfect Days (Wenders).

Difficile non empatizzare con la donna in un crescendo di momenti di piacere e di smarrimento, tanto da provare una grande commozione quando, al termine di un angosciante viaggio, dobbiamo lasciarla ad affrontare una sorprendente scoperta: prima della sfumatura in nero, non possiamo che udire ancora una volta il canto del merlo, annuncio di una fine e al tempo stesso di un nuovo inizio.

I prati si congelano, il cielo si oscura, un vento freddo batte la steppa, è un contesto rurale completamente diverso quello della campagna ucraina: stiamo parlando di Stepne, che vale a Maryna Vroda il Premio Trieste assegnato dalla giuria del Festival.

Il conflitto è lontano, qui vivono soltanto gli anziani e tutto sembra ancorato al passato: un passato che lentamente muore e scivola nel limbo assieme ai pochi abitanti riuniti nelle case e con loro i ricordi, le radici piantate in profondità nella terra, le tradizioni.

Anatoliy giunge da lontano in questo non-luogo, in un casolare tra i boschi dove accudirà la madre nei suoi ultimi giorni di vita. In un gioco di lunghi silenzi ed elegiaci momenti popolari, Stepne ci parla melanconicamente di un mondo che sta scomparendo, ma anche della spesso trascurata profondità del legame tra generazioni e dell’importanza del fare i conti con il proprio passato per poter procedere con le proprie vite.

I colori passano ad un bianco e nero ancora più freddo e indifferente quando ci troviamo al confine tra Bielorussia e Polonia raccontato da Green Border di Agnieszka Holland. Centinaia di persone trasformate in proiettili umani vengono quotidianamente spinte dal governo bielorusso verso i confini della Polonia, in modo da mettere sotto scacco il sistema di accoglienza e smascherare i presunti principi umanitari su cui si fonda l’Unione Europea. Nel mezzo di spoglie foreste e inospitali paludi, attraversano di giorno il confine per poi venir respinte dall’altra parte del filo spinato dalla polizia polacca durante la notte, ignorando le richieste di asilo e soprassedendo al rispetto dei diritti umani.

Un filo lega idealmente Green Border a Trieste è bella di notte presentato nella scorsa edizione del festival: i respingimenti illegali, che i nostri media chiamano “riammissioni informali”, sono una pratica che negli anni si è ripetuta sotto traccia e lontano dai riflettori, dalla Polonia, alla Croazia, a Trieste. Laddove Holland struttura una parabola suddivisa in capitoli che spinge il suo sguardo dalla disperazione di famiglie in fuga, all’impostura dei governi occidentali, al coraggio degli attivisti, il film di Calore, Collizzolli e Segre accostava invece frammenti autentici dando voce ai profughi della rotta balcanica.

È questo un cinema impegnato, che mette l’arte al servizio della coscienza, che non si pone l’obiettivo di dare soluzioni o individuare colpevoli, ma sfrutta la risonanza dello schermo cinematografico per metterci davanti a ciò che non sappiamo, o meglio, evitiamo di vedere.

Non c’è nulla di rassicurante in questo messaggio, anzi, si prova imbarazzo e frustrazione davanti alla disturbante banalità del male che si palesa giorno dopo giorno nelle frasi di funzionari statali, nella violenza delle polizie di frontiera, nelle chiacchiere e nei commenti ai post che scorrono sui nostri smartphone.

Molto calzante in questo senso l’accostamento di Zone of Interest di Jonathan Glazer, presentato fuori concorso, in cui ci viene assistiamo alla serena e bucolica vita di campagna del colonnello Rudolf Höss e della sua famiglia, a pochi passi dal suo luogo di lavoro, il campo di concentramento di Auschwitz, separato da un semplice muro: superfluo analizzare più in dettaglio l’attualità di questa sadica miopia, e spostare la zona di interesse alla vicinanza mediatica e geografica delle tragedie cui assistiamo.

Se emigrati e popoli in cammino di ogni parte del mondo dovessero unire la loro energia e le loro radici in un canto, in una scatenata danza liberatoria, probabilmente ne verrebbe fuori qualcosa che assomiglia alla musica dei Gogol Bordello, collettivo gypsy punk capitanato dal carismatico Eugene Hütz. Il documentario Scream of My Blood: A Gogol Bordello Story (Pommer, Weinrib) ci catapulta dentro al loro mondo sgangherato eppure così sensato e pieno di vita. Intorno alla figura di Eugene, poliedrico emigrato ucraino a New York all’inizio degli anni Novanta, si aggregano via via i componenti della band: persino il serissimo violinista russo Sergej sulle prime irrigidito e incredulo davanti alle bizzarre performance del primo nucleo della band, mise ben presto da parte la rigidità accademica per lanciarsi in irresistibili sviolinate.

Ed era solo l’inizio, sono più di venti gli artisti che nel corso degli anni si sono avvicendati per periodi più o meno lunghi nella grande famiglia dei Gogol Bordello, provenienti da ogni parte del mondo (Ucraina, Ecuador, Scozia, Cina, Israele, Stati Uniti, Bielorussia, Etiopia per citarne alcuni): schegge vaganti accomunate da un profondo senso di appartenenza allo spirito del mondo, che proprio in virtù di ciò riescono ad amalgamarsi così bene e a sprigionare un incredibile quantitativo di energia positiva, tale da far risultare superflui e assurdi i confini geografici disegnati sulle mappe. Nell’Ucraina devastata dalla guerra, dopo un improvvisato concerto con i militari in una caserma, Eugene si lascia andare a una riflessione:

“La musica non potrà mai cambiare il mondo” dice, ma gli si illuminano gli occhi quando aggiunge “tuttavia è potente… è una specie di magia”.

Mentre Eugene Hütz ricorda quasi con un sorriso beffardo i tempi in cui in Italia lavava i parabrezza delle auto ferme ai semafori, il cortometraggio umanista Land of mountains di Olga Kosanović, che le vale il premio della giuria, ci fa vivere con semplicità e delicatezza lo scoraggiante scontro di un padre e una bambina con la burocrazia austriaca per l’ottenimento del permesso di soggiorno. Una storia che oppone dignità e amore alla follia kafkiana delle istituzioni e all’ipocrisia della politica di accoglienza e integrazione.

La sensazione di impotenza di fronte al dilagante conformismo conservatore viene resa abilmente da Without Air, opera prima della cineasta ungherese Katalin Moldovai.

Non occorre in realtà trovarsi in Ungheria per poter assistere a surreali dibattiti e sterili teatrini politici quando si entra nel merito di cosa sia opportuno insegnare nelle scuole, specialmente in termini di sessualità, e cosa vada invece assolutamente evitato, pena l’inevitabile corruzione delle future generazioni. Ana, riconosciuta insegnante di letteratura in un liceo magiaro, si ritrova suo malgrado coinvolta in un vortice di pressioni e ingiustizie scaturite dall’aver consigliato ai suoi studenti la visione di un film sulla vita di Rimbaud, reo di contenere riferimenti all’omosessualità del poeta, ritenuti inappropriati e dannosi da uno dei genitori. Complice il contesto politico, l’influenza del genitore in questione, ma soprattutto l’inconsistenza della maggior parte dei professori, la scuola anziché fare quadrato intorno alla protagonista, si schiera dalla parte del genitore promettendo adeguate misure e dissociandosi dall’insegnante. Ma la battaglia di principio ben presto si trasforma in farsa: tra vendette personali e tribunali sonnecchianti, Ana conduce la sua battaglia contro i mulini a vento, non trovando nessuno disposto ad ascoltare o a ragionare sul merito della questione.

“Sarà solo un’ammonizione, accettala, e tutto questo verrà presto dimenticato”. È la sua capacità di non scendere a compromessi, di non svendere gli ideali in un silenzio complice, che rendono Ana un’eroina dei nostri tempi, in cui spesso per esserlo è sufficiente fare il proprio lavoro con coerenza e integrità.

Nella scena finale del film, Ana sta guidando la sua automobile su una strada dritta, nella sconfortante desolazione di valori e principi, ennesima navigante a vista nel buio della fine del mondo. Dubbi e pensieri probabilmente le si accavallano nella testa, molte domande, poche risposte: dove sta andando, che senso ha percorrere questa rotta senza destinazione?

Chiude gli occhi, e noi li chiudiamo con lei.

Il rumore del battistrada sull’asfalto si abbassa, sentiamo un fiume che scorre, il vento che sfiora le cime degli alberi di una foresta, i passi sul fogliame di un popolo sempre in cammino, un incrocio di lingue incomprensibili che parlano di disperazione e di speranza, un merlo si allontana cantando, in lontananza degli spari, un elicottero che si avvicina. Sentiamo il profumo pungente di un mandarino, qualcuno deve averlo aperto in sala, ricordandoci che siamo sul Mediterraneo, che l’Europa orientale arriva fin qui, e che questa storia è anche nostra. Riapriamo gli occhi, ritorna il rumore del motore, la strada è ancora lì, l’auto procede, il mondo è andato avanti e continuerà a farlo, che lo si guardi o meno.

Le linee di fuga convergono in un punto al centro, si va avanti, e noi andiamo avanti senza troppe illusioni ma con una sensibilità rinvigorita, un orecchio più attento, con rinnovata voglia di ascoltare, guardare e pensare nonostante tutto.

Scaliamo marcia e acceleriamo: grazie Trieste Film Festival, all’anno prossimo.

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