E-state fuori dalle accademie

di Francesca Ruina

Dalì

Mentre i mass media ci sbattono gaiamente in faccia, per riempire i fiacchi notiziari estivi, le ultime immagini di riviere infestate di bagnanti e montagne gremite di fungaioli improvvisati, esistono degli strani esseri che respingono con forza questo ameno immaginario collettivo; certamente dei tormentati che proprio non ce la fanno a rinunciare – neanche sotto il solleone – ai tomi filosofici imbracciando più consoni e balneari libri Harmony e sudoku.  Sto parlando del misterioso e settario popolo delle cosiddette “summer school” – in particolare di quelle filosofiche – fenomeno transoceanico che da qualche anno imperversa anche in Italia. Chiuse le porte delle accademie per la pausa estiva, ecco che compaiono come funghi le “scuole” della bella stagione, tanto ambite dagli instancabili del settore, dai divoratori del pensiero, dagli insaziabili della riflessione, che fanno a gara per entrarvi e collezionarne il più possibile. Solitamente sono gratuite, durano qualche giorno, una settimana al massimo, e si svolgono in luoghi perlopiù defilati, lontano dalle grandi città che ospitano le accademie. Generalmente ruotano intorno a una particolare tematica, sulla quale grandi nomi della filosofia si ritrovano a discutere tra conferenze e tavole rotonde.

Da nord a sud, da Grado fino a Roccella Jonica, ricoprono il suolo italico, incuranti dell’afa e degli esodi estivi. Raccolgono solitamente tra le 50 e le 100 iscrizioni e viene da chiedersi come mai così tante persone decidano di impegnare parte delle loro vacanze in queste attività così apparentemente poco ludiche – perlomeno nella concezione comune del termine. Perché chiudersi in aule improvvisate, scomodamente accovacciati su sedie di fortuna, mentre dalle finestre dietro le cattedre il sole fa capolino, quando ci si potrebbe spalmare su una spiaggia con il cervello in modalità off-line?

No, nessun riconoscimento, nessun attestato che risponda all’ossessiva domanda di parenti e amici: “ma almeno ti SERVE a qualcosa?”. Sviata la questione utilitaria e mercificante coll’amaro e autoironico sorriso di chi -occupandosi nella vita di filosofia – si sente ripetere da anni questa domanda, resta pur vero che c’è da capire bene cosa accada in queste “summer school”; resta da capire cioè che cosa vadano cercando lì dentro coloro che, anche d’estate, non resistono al grottesco richiamo della filosofia. Cercano un completamento, un corollario, un surrogato edulcorato del sistema accademico – o qualcos’altro? E la filosofia, uscendo dal suo rettilaio istituzionale per immergersi tra la “gente comune”, giunge davvero in questi luoghi ad ottenere quello spaesamento, quel benefico elettroshock culturale di cui ha palesemente – oggi più che mai – un enorme bisogno?

Un aspetto piuttosto curioso è che molte di queste scuole hanno l’intento più o meno esplicito di “fare filosofia”. Ne è un esempio PRAXIS, “scuola” che si è svolta a Forlì dal 21 al 26 luglio, capitanata dal colosso della filosofia italiana Carlo Sini, affiancato da Florinda Cambria, Rocco Ronchi e Federico Leoni. Tra Marx, Wittgenstein e Peirce, tra filosofia analitica e continentale, tra materialismo assoluto ed empirismo radicale, si è cercato di dare vita a quella chimera che sarebbe la famigerata “pratica” filosofica. Un nobile sforzo che, tuttavia, è rimasto imbrigliato in una dimensione speculativa e unilaterale. Una serie di lezioni inequivocabilmente frontali che da un lato ha senz’altro soddisfatto il bisogno conoscitivo e nozionistico dei partecipanti, ma che dall’altro ha trascurato, a mio avviso, il palpabile desiderio di alcuni di spaziare al di là di pagine già scritte in direzione di una riflessione più ampia alla ricerca di una differente sfumatura del concetto di “pratica”.

Differente sfumatura che personalmente ho incontrato invece nella scuola di Trieste, decisamente meno accademica, capitanata da Pier Aldo Rovatti. Non proprio una “summer school” stricto sensu, visto che si è svolta, a weekend alterni, tra gennaio e maggio, ma pur sempre facente parte del panorama filosofico extra-accademico. Qui, le stanze del Dipartimento di Salute Mentale che hanno ospitato la scuola si sono riempite, invece che del ticchettio di penne che redigono diligentemente paginate di appunti, di una commistione di voci diverse che chiedevano, interagivano e dissentivano. Non una filosofia accademica, arroccata tra parole e discorsi autoreferenziali, ma una filosofia che è tornata ad essere prima di tutto una contestazione del sapere costituito, un interrogarsi emotivamente su se stessi e sul mondo – o che almeno ci ha provato, correndo gioiosamente il rischio di macchiare la linda veste del sapere con un po’ di sano caos.

Uscendo fuori dal sistema universitario che tende a istituzionalizzarla, a mercificarla, a nozionizzarala, la filosofia può diventare altro da ciò è costretta ad essere. Può dismettere gli abiti accademici con cui è stata vestita (e ama vestirsi), per farsi pratica, per farsi mondo, per farsi relazione, per giungere davvero a rovesciare continuamente l’uno nell’altro il toccante e il toccato, il guardante e il guardato. Può, insomma, scardinarsi, uscire dal frigorifero egoriferito in cui è stata posta dagli stessi filosofi, per ricrearsi – anche ignorante, anche ridicola – come interrogativo, come sfida, come complicità, e non come soluzione. Oppure la filosofia può continuare, come ha sempre fatto, a parlare di se stessa come unico e autocelebrativo oggetto delle proprie riflessioni, gonfiando all’ennesima potenza una scintillante autorità fatta di chiacchiere – perché non si mai visto “fare” filosofia con altro che con parole (o al limite, nei casi più nobili, con azioni che si accordano a parole).

La filosofia non ha un luogo prestabilito, e non può nemmeno essere contenutisticamente circoscrivibile. Arginarla puntando i riflettori verso un suo ipotetico interno significa spegnerla, renderla il soddisfacimento onanistico di bisogni psedointelletuali per frustrati di ogni età, e non più un desiderio di essere con gli altri. Questo vale per le università, per le “summer school” e per ogni luogo in cui si millanti di “fare filosofia” mentre la si insegna.

Ricordiamoci che parlare di filosofia e fare filosofia sono due pratiche ben diverse: due pratiche che non devono necessariamente escludersi a vicenda, ma che troppo spesso si tende a confondere. In una il desiderio di socializzazione è la cosa fondamentale ed eccede da ogni parte i contenuti che servono da esca ad un genuino incontro/scontro tra persone diverse, nell’altra la venerazione del sapere fa sbiadire chiunque porti parole indegne di un alto tenore filosofico. Entrambe si fanno con le parole, ma in una le parole espongono, impegnano, inquietano chi le pronuncia (e chi le ascolta), nell’altra le parole (filosofiche e non) spesso non sono altro che un prezioso ventaglio di carta utile soltanto a nascondere l’imbarazzo prodotto dal fatto che, di proprio, non si avrebbe proprio nulla da dire.

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