Una considerazione sul disastro aereo Germanwings

di Lilli Goriup

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La Francia e il mondo hanno assistito a bocca aperta allo schianto dell’Airbus A320 della Germanwings sulle montagne della Provenza, il 24 marzo 2015. A poco più di due mesi dalla strage di Parigi, lo spettro del terrorismo è parso aggirarsi ancora una volta per l’Europa, non senza passare per la doppia gaffe di un’esponente del centrodestra italiano su twitter (“di che nazionalità erano i piloti dell’autobus caduto???” – Corsivo mio, il resto è originale, abuso di punteggiatura compreso). Le indagini hanno tuttavia escluso quasi immediatamente l’opzione terroristica. Si segnala la lettura degli eventi proposta da Annalisa Merelli su Quartz e quindi su Internazionale: secondo l’autrice, se alla guida dell’aereo ci fossero state persone di origine araba o musulmana, l’episodio sarebbe stato considerato un attentato terroristico fino a prova contraria; un fenomeno apparentemente neutrale come lo scartare precocemente l’ipotesi terroristica sarebbe dunque il segno del pregiudizio antislamico radicato nella coscienza europea, esemplificato dall’infelice esternazione della nostra deputata.

Dalle registrazioni della scatola nera emerge che non si tratta neppure di un incidente, dovuto a un guasto tecnico oppure a un malore: l’inquietante verità è che il copilota, Andreas Lubitz, ha approfittato della momentanea assenza del comandante, recatosi alla toilette, per serrarsi all’interno della cabina di guida. Le misure di sicurezza adottate dopo l’11 settembre rendono impossibile aprirla se è stata chiusa dall’interno. Il comandante Patrick Sonderheimer bussa, non ottiene risposta, realizza quanto sta accadendo. “Per l’amore di dio, apri la porta”. I suoi tentativi di sfondare la porta, negli ultimi minuti, di volo e di vita, non hanno successo. Il respiro di Lubitz solo nella cabina e poi le urla dei passeggeri sono gli ultimi suoni contenuti nella registrazione. Ora c’è una lapide sul massiccio del Trois Eveches dove l’aereo si è schiantato, mentre nuovi aspetti continuano a emergere e le interpretazioni a fiorire.

Burnout o depressione sono le ipotesi che in questi giorni vanno per la maggiore per spiegare il gesto di Lubitz, e sono tuttavia scartate da Emilio Sacchetti, ordinario di Psichiatria all’università di Brescia e presidente della Società Italiana di Psichiatria, in un’intervista rilasciata al Corriere della sera. Il burnout, secondo Sacchetti, “non è considerato una malattia in senso stretto, bensì una condizione di inadeguatezza nel rispondere in modo soddisfacente allo stress, in particolare, ma non solo, da lavoro. Si declina in tre modi: esaurimento, inefficacia e cinismo”. Esso non si presta a spiegare il gesto del copilota in quanto, secondo la letteratura scientifica, il burnout in casi di suicidio-omicidio si manifesta in un contesto “salvifico-delirante”, difficilmente compatibile con l’uccisione di un centinaio di estranei. È riluttante anche verso l’ipotesi della depressione, poiché “in un caso come quello descritto il comportamento non sembra essere tipico di un depresso, che probabilmente non sarebbe nemmeno riuscito ad andare a lavorare, ma piuttosto quello di un individuo in uno stato di lucida follia”. Un altro psichiatra, oltre che psicanalista e redattore de Il manifesto, scrive “Lubitz non era folle, né psi­co­tico: non è la pas­sione, ridotta a odio, né un’arbitraria e piena d’angoscia interpretazione/percezione del mondo ad aver deter­mi­nato il suo agire”. Parla poi di un “buio nella mente, […] un vuoto di emo­zioni e di pen­siero, […] un buco nella sua rap­pre­sen­ta­zione del mondo e della pro­pria esistenza”. Secondo Sarantis Thanopulos, Lubitz non avrebbe agito in preda a un impeto bensì, al contrario, per una sottrazione, un di meno di passione: una condizione che definisce di “psicosi bianca”.

Dopo questa breve rassegna non ci addentriamo oltre in questioni psichiatriche che non ci competono; ciò che è degno di interesse, in una prospettiva critica, è notare come due approcci scientifici differenti quali quelli citati sopra (Sacchetti è principalmente psichiatra, mentre nel testo di Thanopulos si respira aria psicanalitica) concordino tuttavia nell’affermare, in sostanza, la stessa cosa, ovvero che Lubitz non era un “folle” nel senso clinico del termine. C’è qualcosa, in quel gesto e quelle circostanze, che eccede le tradizionali categorie di diagnosi, e non si lascia ingabbiare da una definizione rigorosa o rassicurante. Un “vuoto di emozioni e di pensiero”, uno “stato di lucida follia”, appunto.

Questo è il punto nodale, perturbante, da cui iniziare una riflessione che non si limiti alla compassione da un lato e alla stigmatizzazione dall’altro. Se la follia è un punto di vista sulla salute e la salute un punto di vista sulla follia, come vuole Gilles Deleuze nel suo Nietzsche, un simile gesto racconta qualcosa sullo stato di salute della società che lo produce, in particolare su ciò che di se stessa non vuole vedere. Etichettare l’atto di Lubitz come il gesto di un folle equivale a non cogliere la ratio che esso potrebbe celare – o svelare, a seconda dei punti di vista. Secondo una frase attribuita a Lacan, “bisogna saperci fare, con il sintomo”. Depressione o sindrome da burnout che dir si voglia, la tendenza è quella di porre il folle come il diverso, l’assolutamente altro, il mostro. Si badi, affermare che Lubitz non fosse un folle non significa negare la mostruosità del suo gesto, ma al contrario ribadirla, spogliandola dei caratteri di eccezionalità che le vengono attribuiti, e mostrando invece come essa concerne intimamente il contesto da cui risulta. La depressione è largamente considerata il male del nostro secolo, milioni di persone ne sono affette: non è paradossale evocarla come spiegazione di quello che si vuole considerare un gesto extranormale? Il sospetto è che ciò indichi un inceppamento nel paradigma scientifico, quello terapeutico, che vorrebbe curare la società, e invece si presta a configurarsi a sua volta come sintomatico. Le radici del gesto di Lubitz sono probabilmente da ricercare altrove, più lontano.

Il padre della psicanalisi, in Gradiva. Il delirio e i sogni nella Gradiva di Wilhelm Jensen, ammonisce riguardo il fatto che “i poeti sono alleati preziosi, e la loro testimonianza deve esser presa in attenta considerazione, giacché essi sanno in genere una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta”. Il gesto di Lubitz sotto certi aspetti ricorda l’efferatezza compiuta da Raskol’nkov in Delitto e castigo, più che una categoria clinica circoscrivibile in maniera puntuale. Il protagonista del romanzo troverà la sua redenzione in un’ottica cristianeggiante quale è quella di Dostoevskij; Lubitz invece incontra la morte, che impone, con un gesto di estremo egoismo, anche al personale e ai passeggeri del volo. Ciò che li accomuna è l’apparente privazione di senso a motore dell’azione, che scaturisce da un “perché no?” invece che da un perché.

“D’un tratto mi si presentò chiaro come il sole questo pensiero: come mai neppure uno finora aveva osato né osava, passando dinanzi a tutta questa assurdità, prendere il tutto puramente e semplicemente per la coda e scaraventarlo al diavolo! Io… io ho voluto osare, e ho ucciso…” – confessa Raskonikov – “Io volli, Sonja, uccidere senza tante casistiche, uccidere per me, per me solo! Non volevo mentire a quel riguardo neppure a me stesso! Altro avevo bisogno di sapere, altro mi spingeva: avevo allora bisogno di sapere, e di sapere al più presto, se io fossi un pidocchio, come tutti, o un uomo. Avrei potuto passar oltre o non avrei potuto? Avrei osato chinarmi e prendere, o no? Ero una creatura tremante o avevo il diritto…”. Trionfo della negazione, delle forze reattive.

Non a caso Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli, definisce Dostoevskij “l’unico psicologo […] da cui ho imparato qualcosa”. Queste istanze – negazione, forze reattive – sono l’oggetto di una psicologia nel senso in cui è concepita dal pensatore di Röcken e, avverte quest’ultimo, perlomeno nell’interpretazione fornita da Deleuze, esse non cambiano qualitativamente di segno quando prendono il sopravvento, bensì contagiano le forze affermative, vitali, trascinandole in basso, verso lo spirito di gravità. Così il nichilismo prende terreno, anzi, lo consuma sotto i pedi della vita. Dell’uomo – un uomo storico e storicizzato, estremamente vicino a quello che ad oggi s’incontra nelle nostre strade, o nei nostri specchi, e che non ha a che vedere con qualcosa come l’Uomo, o un’essenza dell’umano – nella Genealogia della morale Nietzsche scrive che “preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere”.

Non c’è psicologia in grado di stabilire se e che cosa sia balenato nella mente di Andreas Lubitz negli otto minuti in cui ha pilotato l’aereo verso la dura roccia del Trois Eveches. Le forze in campo che hanno agito Lubitz lo mostrano procedere verso il nulla in silenzio, chirurgicamente, trascinando nella sua corsa altre 149 persone. È l’incarnazione dello spirito del risentimento. L’interpretazione di quanto accaduto a bordo dell’Airbus A320 in termini di forze nichiliste, secondo gli strumenti inattuali presi a prestito dalla letteratura e dalla filosofia di un secolo e mezzo fa, lungi dal porre un punto alla questione, può al massimo ambire a sottrarla all’ambito del mero dato di cronaca, offrendo uno spunto di riflessione su temi quanto mai attuali, che permeano la cultura e la società contemporanee.

3 COMMENTS

  1. Esistono quindi i giornalisti? Pensavo fossero spariti nel buio labirinto dell’Auditel. Bellissimo articolo.

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