Cosa significa “Pensare la fine”?

di Marco Pacini*

*Il seguente articolo contiene alcuni estratti di Pensare la fine. Discorso pubblico e crisi climatica (ed. Meltemi), qui pubblicati a esclusione delle note per gentile concessione di autore ed editore.

Dovremmo prendere sul serio la possibilità della Fine? Ma soprattutto: siamo in grado di farcene carico? Tra una risposta affermativa alla prima domanda e una negativa alla seconda – con le relative “prescrizioni” – si apre la possibilità della catastrofe, figlia del doppio vincolo che ci paralizza, ci inchioda a una modernità che ci mostra insieme la sua tossicità e la sua ineluttabilità. Una tarda-modernità “fuori controllo” che rende più evidente quello che Günther Anders chiamava (in altro contesto, ma con un’espressione attualissima) “dislivello prometeico”, per descrivere “l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti”, o in altre parole l’incapacità di homo faber di prevedere gli esiti del suo illimitato fare.

La Fine maiuscola di cui parliamo naturalmente non riguarda la numerosa famiglia di concetti di cui abbiamo già celebrato il funerale apponendo il prefisso “post” sulla loro lapide (modernità, politica, democrazia, verità…), o almeno non riguarda il “modo” in cui le abbiamo seppellite. Riguarda, più semplicemente, la fine del mondo (umano). Una Fine con cui intratteniamo contemporaneamente un rapporto di confidenza e distanza, grazie a una sovrapproduzione letteraria e cinematografica, nella doppia versione della distopia ecologica e tecnologica (si vedano, per esempio, le saghe di Mad Max e Matrix): un’autentica industria della sublimazione che squadernando scenari di un “uomo senza mondo” vela quello di un “mondo senza uomo”, vale a dire quello della nostra fine come specie.

Le ragioni per cui dovremmo prendere sul serio la parola Fine sono da qualche decennio fin troppo note e numerose per doverle qui ricordare. Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro osservano – tra gli altri – che il riscaldamento globale e la catastrofe ambientale in corso sono “uno dei fenomeni meglio referenziati della storia della scienza”.

Il monitoraggio dei processi biofisici del sistema-Terra segnala da tempo la prossimità o l’oltrepassamento di “tipping points”, di limiti oltre i quali le condizioni ambientali e la sopravvivenza di molte specie (tra cui la nostra) sarebbero incompatibili. Sono soprattutto le scienze che la modernità aveva relegato tra le “minori” a segnalarci la grande discontinuità, ad avvertirci che l’assenza di futuro potrebbe essere già iniziata, per dirla ancora con Anders. Sono le retroazioni del sistema-Terra al progresso che sottraggono la parola Fine all’ambito escatologico per consegnarla alla cronaca.

[…]

Farsi carico della possibilità della Fine è un compito immane per il carattere “iper-oggettivo” dei fenomeni come il cambiamento climatico e le tecnologie fuori controllo. Gli Iperoggetti mettono in crisi il tempo e lo spazio, eccedono la nostra capacità di comprensione con i loro effetti al di là della scala individuale.

Ma è attraverso il pensiero di Bruno Latour che forse possiamo comprendere le ragioni più profonde della difficoltà del compito e dell’inazione globale di fronte alla prospettiva di una catastrofe globale. Sì, è vero, la scienza ci parla di sesta estinzione, di valori biofisici incompatibili con la vita, di processi di feedback che potrebbero accelerare la catastrofe climatica anche rispetto alle previsioni più allarmistiche di qualche anno fa… ma anche se la prendiamo sul serio, la Fine non verrà. Per la semplice ragione che è già avvenuta.

Loro sanno, sentono ma, in fondo, non ci credono. Risiede qui, ritengo, il punto in cui ricercare l’origine profonda del clima-scetticismo. Non si tratta di uno scetticismo che poggia sulla solidità delle conoscenze ma di uno scetticismo sulla posizione nell’esistenza. […] Un “cambiamento di vita totale e radicale”? Ma lo hanno già compiuto, proprio divenendo risolutamente moderni! Se la modernità non fosse così profondamente religiosa, l’appello ad adeguarsi alla Terra sarebbe accolto con facilità. Ma poiché ha ereditato l’Apocalisse, semplicemente spostata di una tacca nel futuro, non suscita altro che una scrollata di spalle o una risposta indignata: “Come potete venire ancora una volta a predicarci l’Apocalisse? Dov’è indicato nelle Scritture che ci sarà un’altra apocalisse dopo la prima? La modernità è quel che ci hanno promesso, quel che abbiamo conseguito, quel che abbiamo conquistato, talvolta con la violenza, e voi pretendete di strapparcela? Ci state dicendo quindi che ci eravamo sbagliati sul senso della promessa! Che la Terra promessa della modernità doveva restare promessa! È assurdo!”

(Bruno Latour, La sfida di Gaia)

Dovremmo invece, secondo il filosofo e antropologo francese, convenire tutti sull’importanza di affrontare un’apocalisse “al tempo presente”. Si tratta di affrontare una Fine senza la promessa di un Regno (cristiano, o marxista o sintetico). Una Fine senza nuovo inizio. “Non un altro mondo, ma questo stesso mondo colto in modo radicalmente nuovo”.

L’eredità religiosa del pensiero escatologico resta tuttavia in gioco in influenti correnti di pensiero: dall’accele- razionismo alla teoria della singolarità. E al traguardo del secolo di vita anche James Lovelock, al quale dobbiamo il concetto di Gaia, ha abbracciato un’escatologia hi-tech considerando l’Antropocene il nostro destino ormai compiuto, mentre siamo già entrati nel “Novacene”, l’era in cui, grazie alla tecnologia, la fine del mondo umano è in realtà il suo compiersi, l’esaurirsi di un compito e l’inizio di un “al di là” sintetico. L’era in cui “i cyborg viventi usciranno dall’utero dell’Antropocene”. L’era di una nuova Gaia “che indosserà un nuovo manto inorganico”. Chi, meglio di Lovelock, potrebbe prendere sul serio la parola Fine? Ma l’escatologia tecnologica del padre di Gaia non prevede una “cura” della Fine, nel senso di cura delle retroazioni di Gaia all’agire umano per garantire una persistenza-permanenza dell’umano. È già tutto scritto, il destino sta per compiersi, senza pianti né rimpianti:

Probabilmente alla fine la Gaia organica morirà, ma proprio come non piangiamo per la scomparsa delle specie nostre antenate, allo stesso modo i cyborg non saranno distrutti dal dolore per la scomparsa degli esseri umani.

(James Lovelock, Novacene. L’età dell’iperintelligenza)

I tecno-evangelismi del nuovo mondo, che hanno i loro think-tank come il Breakthrough Institute, si ostinano invece a preservare l’umano, rispondendo affermativamente a entrambe le domande: sì, prendiamo sul serio la possibilità della Fine e stiamo mettendo in campo tutta la potenza del Capitale per farcene carico, scongiurandola. Ci penserà ancora una volta il dio mercato, cogliendo tutto il potenziale dell’economia green e dell’ingegneria climatica!

Alex Williams e Nick Srnicek, nel loro Manifesto accelerazionista, offrono una variante “di sinistra” al potere salvifico del Capitale come creatore del mondo nuovo o dell’uomo senza (vecchio) mondo, propugnando una “politica prometeica” di massimo controllo sulla società e sul suo ambiente15. Ma questa accelerazione intenzionale della macchina capitalista (per superarla), posta come soluzione alla nostra attuale miseria antropologica, “si trova in con- traddizione oggettiva con un’altra accelerazione per niente intenzionale: l’implacabile processo di retroazione positiva delle trasformazioni ambientali deleterie per l’Umwelt della specie”. In altre parole: non faremo in tempo.

Il passaggio dalla storia alla geostoria, annunciato da Dipesh Chakrabarty, e il Nuovo regime climatico (Latour) sembrano suggerire che siamo ancora (e di più) in presenza di una asincronizzazione tra gli entusiasmi prometeici tecno-religiosi e l’“intrusione di Gaia”, che è venuta per restare e cambierà le nostre vite per sempre, avverte Isabelle Stengers.

Si tratta allora di coltivare un pensiero della Fine, per evitarla, senza giocarci tutto confidando “religiosamente” sul fatto che il rimedio arriverà prima del veleno, che l’accelerazione tecnologica supererà quella della retroazione di Gaia. E trascurando del tutto il monito: “Non possiamo continuare a credere al vecchio futuro, se vogliamo avere un avvenire”. Pensare la Fine, sfuggendo alla trappola della nuova escatologia tecnologica figlia di quella ebraico-cristiana (la promessa del Regno), è un compito immane. Un pensiero della Fine chiede, per cominciare, una reinvenzione metafisica, una riconcettualizzazione di molte altre nozioni-parole, iniziando da quelle di “umanità” e “mondo”, che nell’Antropocene – seguendo il pensiero di Latour – non si ritrovano più di fronte come soggetto e oggetto: il mondo non è più l’ambiente, la Natura, ma un attore in lotta:

Ciò che era rimasto finora quietamente sullo sfondo – il pa- esaggio servito da cornice a tutti i conflitti umani – si è appena unito alla lotta. Quella che era fino a oggi una metafora – ossia, persino le pietre gridano di dolore dinanzi alle sofferenze che gli umani hanno inflitto loro – è divenuta letterale.

(Bruno Latour, La sfida di Gaia)

Pensare la Fine chiede anche, come gesto preliminare, un’“euristica della paura” (Hans Jonas), una postura radicalmente pessimista, apocalittica, ma nel senso dell’“apocalittismo profilattico” di Günter Anders:

Se ci distinguiamo dai classici apocalittici giudeo-cristiani non è solo perché temiamo la fine (che loro hanno sperato) ma soprattutto perché la nostra passione apocalittica non ha altro obiettivo che quello di impedire l’apocalisse. Siamo apocalittici solo per avere torto.

(Günter Anders, Le temps de la fin)

Il pensiero della Fine – come unica possibile alterna- tiva alla mistica hi-tech – con il suo materialismo radicale che sposta la parola dall’ambiente escatologico a quello più prosaico della biofisica, si nutre di un pessimismo preventivo perché ascolta Gaia piuttosto che le Trombe dell’Apocalisse. E Gaia parla da vicino. Parla di materia, dei suoi elementi impazziti, o “in lotta”.

A rendere accidentato il percorso verso un pensiero della Fine è il suo carattere “totalitario”, la sua pretesa di demolire l’intero universo del discorso della contemporaneità, di “spezzare il sistema di coordinate dei Moderni”, direbbe Latour. Secondo il quale non ci sono dubbi: “Bisogna mappare tutto di nuovo. E in più farlo con urgenza, prima che i sonnambuli finiscano per calpestare nella loro fuga cieca tutto ciò a cui teniamo”.

Ecco allora che farsi carico della parola Fine, una volta presa sul serio, significa prendere atto che nulla più è dato. Che le conquiste “liberali” potrebbero avere una scadenza ecologica. La libertà, la democrazia, i diritti individuali potrebbero dover subire una mutazione, perché nell’Antropocene gli esseri umani sono “irrimediabilmente pri- gionieri della loro instabile relazione con il funzionamento complessivo del Sistema Terra”.

Questa nuova condizione di “prigionia” cui saranno costrette le prossime generazioni – e che solo la nostra “grande cecità” (Amitav Ghosh) ci impedisce di vedere – farà piazza pulita di gran parte degli ingredienti che riempiono l’agenda politica della contemporaneità, e forse della stessa teoria politica, che è “parecchio indietro rispetto alla chimica atmosferica e all’oceanografia fisica”.

Geoff Mann e Joel Wainwright parlano di “adattamento del politico”. Che qui potremmo tradurre in “smottamento” del vocabolario politico che la presa in carico della parola Fine porta con sé. Oltre a quelle già esaminate, quali torsioni subiscono, nel Nuovo regime climatico (vaste aree desertificate, ondate di calore incompatibili con la vita umana, inondazioni frequenti, zone litoranee sommerse, migrazioni di proporzioni oggi inimmaginabili…), parole come Stato, sovranità, giustizia…? “La scala dei problemi è così grande che sembra impossibile affrontarli senza lo Stato, ma sembra altrettanto impossibile che lo Stato, per come è attualmente costituito, possa rivelarsi efficace”, osservano Mann e Wainwright. Prima conseguenza: si può immaginare una sovranità che non sia planetaria? Quale sovranità potrà essere esercitata in un “nuovo regime climatico” se le decisioni dovranno essere prese nel nome della specie e non di questo o quel popolo “sovrano”?

E se l’ingegneria climatica dovesse raggiungere i risultati promessi, a chi sarebbe affidato il compito di regolare il “termostato globale”? Ecco un altro possibile scenario che spazza via l’idea di sovranità nel senso in cui oggi nutre un discorso pubblico fermo al secolo scorso.

E la parola giustizia dovrà essere aggettivata principalmente con “climatica”, posto che – secondo un rapporto di Philip Alston dell’ONU – il 10 per cento degli stati dovrà sopportare il 75 per cento degli effetti del cambiamento climatico?

Lo “smottamento” provocato dalla presa sul serio della parola Fine dovrà infine coinvolgere le ultime due parole, decisive, per sottrarre le politiche globali al doppio vincolo, tra doveri green e l’irrinunciabilità al benessere materiale. Si tratta, naturalmente, delle parole “crescita” e “demografia”, che insieme costituiscono il grande tabù, l’autentico cortocircuito psicologico e culturale di cui sono vittime i Progressisti del Nord del mondo, quelli che vorrebbero salvare la loro anima verde e combattere le minacce sovraniste alla democrazia restando aggrappati a quelle due parole, che nell’Antropocene sono la quintessenza del sovranismo, visto che ciò che “fa bene” al mio Paese (maggiore ricchezza da distribuire e inversione del crollo della natalità) è precisamente ciò che la mia coscienza ambientalista dovrebbe considerare nocivo – se non fatale – una volta applicato su scala planetaria.

Sull’impossibilità della crescita esiste una vasta letteratura. Più complicato affrontare il tabù demografico. Almeno nei termini che un pensiero della Fine richiede. Ha provato a farlo Donna Haraway immaginando un mondo in cui la natalità è una scelta collettiva che viene presa insieme proprio perché si conoscono le conseguenze alle quali potrà condurre. Un mondo che dovremmo sperare abitato da non più di due o tre miliardi di persone. L’adozione di un pensiero della Fine (per evitarla) che consenta di rispondere affermativamente alla doppia domanda iniziale, non può che essere un gesto radicale, radicalmente politico. Una rivoluzione dei Terrestri contro i Moderni, nei termini di Bruno Latour. Anzi una guerra – secondo il filosofo francese – combattuta in nome di una ritrovata razionalità finalmente sottratta all’“appropriazione indebita”, al monopolio nefasto dell’economia.

Lasciamo ancora una volta la parola a Bruno Latour, uno dei pensatori che per primi, e più a fondo, hanno scandagliato la “condizione umana” nella nuova era, prendendosi cura della parola Fine.

La fusione dell’escatologia e dell’ecologia non è una caduta nell’irrazionalità, una perdita di controllo o una sorta di adesione mistica a un mito religioso ormai superato; è, bensì, necessaria se vogliamo fronteggiare la minaccia e smettere di giocare a compiacere i fautori della pacificazione che continuano a differire, ancora una volta, l’imperativo di tenersi pronti alla guerra. L’apocalisse è un appello a essere finalmente razionali, a tenere i piedi per terra.

(Bruno Latour, La sfida di Gaia)

In questo libro si proverà a suggerire l’adesione a quell’appello, indagando la plausibilità di un diverso “pensiero della fine”, minuscolo. Per imparare a “tenere i piedi per terra”, in fondo, non basterebbe cominciare dal rovesciamento del celebre adagio secondo cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”?

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