“Documanità”: la scommessa del webfare

di Stefano Tieri

La parola “rivoluzione” non è più un tabù, almeno in ambito tecnologico: in una società sempre più interconnessa, che ama circondarsi di dispositivi “intelligenti” in grado di trasformare le nostre vite, una delle sfide del futuro prossimo (così prossimo da sovrapporsi al presente) è riuscire a indirizzare questo cambio di paradigma in un modo auspicabile per la specie umana. A meno che, ben inteso, l’obiettivo non sia quello di risvegliarsi all’interno di una puntata di Black Mirror.

Ma per sapere dove si voglia andare, bisogna prima capire dove si sia. Dell’attuale rivoluzione tecnologica si occupano generalmente scienziati e ingegneri, meno spesso gli umanisti. Tra le eccezioni, insieme a Luciano Floridi, Byung-Chul Han e Eric Sadin (per citare alcuni tra i più conosciuti), uno degli autori che si sta occupando del tema è Maurizio Ferraris. Professore di filosofia teoretica all’Università di Torino, ha recentemente pubblicato per i tipi di Laterza Documanità. Filosofia del nuovo mondo.

Lungi dal voler dilungarmi (ci pensa già Ferraris, con le sue XXIII + 417 pagine), vado al nocciolo politico del libro, la parte a mio avviso più interessante. Preso atto dell’enorme valore economico del lavoro (pardon, della mobilitazione) che tutti noi compiamo quotidianamente utilizzando i dispositivi digitali – un lavoro non retribuito, che i colossi del web capitalizzano senza farsi troppi problemi –, Ferraris propone di istituire un webfare. Si tratta di un welfare digitale, che dovranno sostenere economicamente proprio le piattaforme del web per “prevenire le conseguenze sociali della disoccupazione”. Eh già, perché l’automazione del lavoro galoppa veloce, e proprio come la popolazione di cavalli è drasticamente calata a seguito dell’arrivo di automobili e trattori, un destino simile potrebbe toccare ai lavori attualmente svolti dagli esseri umani. Questo webfare dovrà sostenere il consumo (che “non è il surrogato moderno dei vizi capitali, bensì il bisogno organico inserito in un contesto socio-tecnico”), l’educazione (bisognerà, una volta superato il lavoro e la sua soggettivazione, “imparare a vivere”) e l’invenzione. Si tratta “solo” di convincere i colossi del web a pagare: un compito – temo – ben più arduo di quanto crede l’ottimista Ferraris.

Lettura consigliata a:

  • tecno-utopisti
  • chi pensa, in barba a Shoshana Zuboff, che il “capitalismo della sorveglianza” sia un ossimoro (perché o c’è capitalismo, o c’è sorveglianza)
  • quei complottisti per cui dietro a ogni manifestazione del divenire si nasconde la longa manus dell’isteresi (e per chi l’isteresi non sappia proprio cosa sia, ché magari si converte)
  • chi crede che viviamo in una specie di comunismo realizzato, poiché “siamo proprietari dei mezzi di produzione” (lo smartphone), la società delle piattaforme è “senza classi”, “assistiamo alla fine della proprietà privata” e dello Stato, con il populismo che “è in effetti la realizzazione della dittatura del proletariato”.

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