(Dopo Dante) Aridatece Manzoni!

di Francesco Bercic

Sul Corriere della Sera di mercoledì 7 settembre si è accesa una curiosa polemica, che tirava in ballo il popolarissimo filosofo Umberto Galimberti. L’articolo in questione, di Paolo Di Stefano, entrava nel dibattito successivo alla ripubblicazione di uno spezzone di Galimberti, tratto da una lectio attorno alla figura di Alessandro Manzoni. Per il filosofo converrebbe rimuovere dai programmi scolastici lo studio dei Promessi Sposi, poiché la sua interpretazione favorirebbe l’ormai imperante nichilismo giovanile, una sorta di fatalismo che spoglierebbe l’uomo della sua effettiva capacità volitiva. Riprese (senza contesto e senza le dovute premesse, va detto) e condivise sui social, le sue affermazioni hanno spalancato il caos, fra chi ci vedeva un atto di sconcertante offesa al patrimonio culturale italiano e chi invece ravvisava un fondo di verità.

Da diciannovenne – e quindi inevitabile, indiretto protagonista di tale diatriba a sfondo didattico – mi preme esaminare un punto specifico nel discorso di Galimberti, un non detto che tuttavia è decisivo per la sua argomentazione. Sia che si condivida la sua proposta, sia che invece non si noti nessuna “pericolosità” nella lettura e nel commento dei Promessi Sposi, in entrambi i casi si ragiona nei termini di una difesa degli scolari, come se questi ultimi dovessero essere protetti da eventuali estremismi ideologici e simili. C’è in tutto ciò un grande abbaglio critico. La critica appunto, la facoltà di essere d’accordo o meno con una visione del mondo, va sviluppata proprio a partire da una specifica lettura, eventualmente anche estremista e ideologizzata; e nel tentativo di estromettere questo o quel passato, si compie invece l’inverso, si favorisce la cristallizzazione degli studenti a una fase infantile, si chiude la loro potenzialità critica in una bolla di vetro, nell’illusione che così possano sviluppare (o conservare?) una fantomatica voglia di vivere.

Paolo Di Stefano suggerisce un’alternativa ancora diversa. Invita a riconsiderare la nettezza interpretativa di Galimberti, sollecitando una visione più ampia dei Promessi Sposi, nei quali si sovrapporrebbero più letture e altrettante dimensioni romanzesche. Anche in questo caso, c’è un elemento sottaciuto che da studente mi risulta difficile da comprendere. Perché si sente il bisogno di limare l’impianto religioso dell’opera per ricondurlo a una vaga e astratta plurivocità letteraria? Si può essere d’accordo o meno con l’interpretazione dell’opera, certamente; Nabokov ricorda come l’assidua ricerca di una “morale” all’interno della letteratura spogli quest’ultima di tutte le sue potenzialità, rendendola inerme, infeconda. Ma l’immediatezza di uno smarcamento da parte di uno dei più importanti giornalisti italiani nei confronti di una lettura cristiano-giansenista dei Promessi Sposi stride con la biografia di Manzoni, cosparsa e intrisa di una vocazione religiosa. È difficile chiudere un occhio davanti alla centralità del tema della Provvidenza, giacché più volte ci ricorda come, retrospettivamente, addirittura tutta la storia – attraverso lo sguardo della letteratura, che aggiunge al “vero storico” la verità morale – costituirebbe un’alternanza di “oppressi e oppressori”, e l’umiliazione sola aprirebbe a un incontro con la Grazia (celebre in questo senso Napoleone nel Cinque Maggio, ma si potrebbe ritornare anche ai Longobardi dell’Adelchi). Non esattamente “un mutevole e contraddittorio insieme di messaggi e punti di vista”, come afferma Di Stefano. Ma ancora, per restare ai Promessi Sposi: come poter ridurre a accidente il celebre finale, il “sugo della storia” con cui Lucia commenta l’intera vicenda? Come poter ignorare la centralità del rapporto con la fede, in quello che Cristina Campo ha definito il “romanzo dei destini”?
L’editorialista (e scrittore) arriva addirittura a paragonare tale episodio a Dante, il cui cristianesimo sarebbe un’inezia, un dato come altri, una delle tante facce della Commedia. Insomma, pare che Boccaccio vi abbia attribuito l’aggettivo “divina” soltanto perché accecato da un raptus teofanico.

Sembra sempre più difficile individuare e quindi divulgare la profondità del nesso fra letteratura e religione; e sembra altrettanto arduo riconoscere l’autenticità di ispirazioni come quella dantesca e manzoniana. E forse, oltre ogni polemica da bar, è quello che ci meritiamo: una scuola senza Manzoni (e senza Dante, se non fosse utile da sbandierare nelle metropolitane o per scrivere innumerevoli libri di commento). Forse, Manzoni e Dante sono già assenti da un po’, se non fosse per la lungimiranza di qualche docente, che ha ancora il coraggio di appassionarsi e appassionare oltre ogni ipocrisia.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Ti potrebbe interessare