“Elvira”, Jouvet e l’arte della trasparenza

di Ilaria Moretti

Si sono concluse il 18 dicembre a Milano, al Piccolo Teatro Grassi, le repliche di Elvira, regia di Toni Servillo, traduzione dell’originale Elvire Jouvet 40 di Brigitte Jaques. Il testo, con la traduzione di Giuseppe Montesano, nasce come trasposizione scenica delle sette lezioni che Louis Jouvet tenne al Conservatoire d’Art Dramatique de Paris, tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940. Si tratta delle battute, delle riflessioni, degli scoramenti di un regista (Jouvet) e della sua giovane allieva Claudia, (Paula Dehelly) impegnati nello studio dell’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière.

Appare retorico chiedersi cosa spinse Jouvet a fissare su carta quella che apparve allora – e oggi più che mai – una riflessione sull’insondabile mestiere dell’attore, sull’arte del “fare il teatro” e dello stare in palcoscenico. Il teatro, Jouvet, non lo riusciva a capire. Eppure si sforzava, si incaponiva, non si dava pace: accadeva quando era sul palco e alla parola univa il sentimento – l’emozione – e assieme al cuore metteva la testa ché, diceva, “come si fa a stare in mezzo alla gente e non guardarla e non chiedersi, non interrogarsi sul teatro e sul mestiere dell’attore?”. Ma non era sufficiente. Tornava in camerino stanco, solo, e se nessuno lo veniva a trovare (accadeva così durante gli anni dell’esilio) si metteva a scrivere come un sonnambulo, sospeso tra la dimensione dell’arte – impossibile – e quella della vita fredda, ostile. Scriveva senza rileggersi, sconfitto in partenza, con il trucco incollato al viso e la testa ingarbugliata da pensieri cupi: “tutto ciò che ho cercato di fare nel teatro, tutto ciò che ho cercato di conoscere mi lascia insoddisfatto (…) tutto mi appare ancora oggi meraviglioso, anche se incomprensibile”.

Jouvet non capiva il teatro. Non lo capiva nonostante la fatica si accompagnasse sempre alla riflessione, alla ricerca di una verità presuntuosa che si schiantava sull’artificio della scena, tra luci forti e occhi stanchi. Così era il Jouvet attore, così l’insegnante e il pedagogo-filosofo: dinnanzi all’allieva Paula si scontrava con la barriera della frivolezza, del gesto artificioso, della compiacenza narcisistica. Combatteva i clichés degli attori: le comodità su cui ci s’appoggia per fare bene ma che suonano costruite, quanto di più lontano dal quel sentimento (“bisogna che tu trovi il sentimento”) che è alla base dell’etica di un attore-trasparente e messaggero, malgré lui, di tensione poetica.

Il Piccolo Teatro di Milano ha così aperto la sua settantesima stagione riproponendo uno spettacolo che venne portato in scena, per la prima volta in Italia, nel 1986 da Giorgio Strehler che si servì di Jouvet (o forse fu Jouvet a servirsi di lui) per inaugurare il Teatro Studio e il progetto di una scuola per attori nel cuore di Milano. Era una torrida sera d’estate, Strehler aveva i capelli bianchissimi, sopracciglia corrucciate. Claudia era interpretata da una giovane Giulia Lazzarini. Leggera, fragile e cocciuta come un’allieva alle prime armi eppure dotata, come suggerisce il personaggio, di un’“intelligenza drammatica” colpevole, tuttavia, di frenare il sentimento, di incanalare le battute nei clichés del mestierante senza vita, incapace di far arrivare il testo oltre la ribalta, nel cuore buio dello spettatore.

Strehler, a ripensarci oggi, nel suo dolcevita nero, non ha niente a che vedere con il Servillo teso, professorale, che guida una Claudia (Petra Valentini) nelle pieghe del mistero, della scena che deve uscire e non esce, della ricerca incessante, della parola che si deve spogliare dall’artificio per farsi viva. E non bastano i mezzucci, le mossette imparate qui e là, non basta “il sentirsi bene nella parte”, perché nella parte ci si deve stare male e solo nel disequilibro e nella perdita infinita del sé si può pensare di sfiorare quel mistero che per Jouvet non aveva una fine, eppure si riproduceva ogni volta che il sipario s’alzava e gli attori prendevano la parola. Strehler, nel ruolo del regista-Virgilio, aveva messo tutto – troppo – di se stesso. Gli errori, le infelicità, le ironie appuntite ma anche i “chili di poesia” che erano il pane del suo teatro, della sua scuola per futuri attori, di quel suo modo sconvolto e amorevole di lavorare.

Fare oggi, nell’epoca del tutto subito e del vincente a ogni costo, uno spettacolo sul difficile è cosa buona. Certo, Petra Valentini, Servillo e gli altri giovani attori di Elvira (Francesco Marino e Davide Cirri) portano avanti con coraggio una lezione che non è solo di teatro e sul teatro quanto piuttosto sull’uomo, sulla ricerca di verità e poesia in un mondo che volta la testa all’indicibile etichettandolo come inutile, votato alla perdita.

Tuttavia, seduti nella sala buia, si ha avuto la percezione che le parole del regista e dagli attori fossero, per l’appunto, soltanto dette e che le sette lezioni sul sentimento, la trasparenza, la ricerca di una recitazione tutta dentro, tutta viscere, siano solo un bel monito in cui rintanarsi, una parte da imparare a memoria per servire il pubblico, senza convinzione.

C’è, nel teatro d’oggi, un’incomprensibile tendenza all’artificio. C’è, nelle voci lavorate, giustamente intonate di questi ragazzi usciti dalle accademie, una pulizia stonata, una levigatura compiaciuta che s’allontana dall’umiltà infelice che rende l’attore non il protagonista di una pièce, non il burattino ammaestrato di uno spettacolo riuscito, ma il messaggero (ancora Jouvet) di una parola detta malgrado tutto. Parola che è frutto di assenza, trasparenza e ancora “eccesso di tenerezza, di collera, di indignazione”. Parola che viene dall’essere in difetto e dal volersi in difetto rispetto a qualcosa che è più grande – l’arte – qualcosa che non si può dire – il teatro – qualcosa che Jouvet ha voluto trascrivere per tentare un esperimento sull’acqua facendo dell’effimero il germe di una possibile, silenziosa, risalita.

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