Il femminismo redditizio di Lanthimos

Il femminismo reazionario di Bella Baxter e le “altre” povere creature eviscerate dall’industria cinematografica

di Arianna Lodeserto

Immagine tratta da Pexels, crediti qui

Atttenzione: la recensione contiene spoiler [Ndr]

Nell’introduzione al suo saggio su Kafka, Günther Anders riferiva che la “letteratura critica” sul fenomeno kafkiano aveva già prodotto “undicimila titoli”. Paradossale e non voluto effetto nel caso di un autore così onesto che andava semmai chiedendo la distruzione delle sue stesse “inutili” opere, e ben altro ancora. Uno stile radicale e sublime come quello di Kafka non si potrebbe paragonare a nessuno scritto, eppure, nel caso di ogni opera di successo, duole ugualmente inserirsi – con tentativi di critica – in “ondate di fama alte come una casa”.

Un’opera di successo va detta mainstream quando è benpensante, adatta a ogni spettatore che possa pagarne la fruizione oggi stesso, modellata su un pubblico che più è grande nel numero meglio è, la qual cosa dovrebbe spingerci a metter via le nostre ammaccate minuscole armi, perché il gioco stanco e ripetitivo del mercato non vale la propria rabbia, né la propria convinzione. Mainstream è qualsiasi flusso-marea che può solo travolgere ogni arrugginito remo o barchetta c’illudiamo di costruire (per opporsi o anche solo sfuggire). È cultura del dominio e dominio della cultura (intesa come industria), e non dà gioia andare a scavare nell’opera stessa per evidenziare brandelli di poesia recondita o involontaria o calcolata a tavolino che un prodotto mainstream potrebbe (assai raramente) contenere. Lungi da noi peraltro tentare di “smontare” l’architettura lussureggiante di Poor things, la cui protagonista tanto bella statuina trasmette pure una certa simpatia della parola, benché incastonata in un ritmo ed una durata (inaspettatamente) noiosi, futili quanto ogni “esercizio di stile”.

In stile ultramoderno, l’(attrice)protagonista, donna-macchina-riproducibile e (ahimè, ancora) necessariamente bellissima, fugge alla ricerca di un sé oltre, dentro o al di là della macchina in quella che appare un’avventura geografica e metafisica, extratemporale (tutta effetti speciali).

Come nasce la biopolitica? E cosa produce?

L’allegra vagabonda ben vestita viene presentata al pubblico come lo scintillante prodotto di tutta una summa di voleri e fertilizzanti patriarcali. Nascita della clinica, del potere medico e psichiatrico, esperimento d’eugenetica, molti ricordi d’un passato mostruoso s’affastellano nella dettagliata esibizione di Bella. Come ogni donna è perennemente “sotto esame”, e il padre-creatore ne dispone a tutti gli effetti. Qualcuno lo avrebbe chiamato il non più nuovo potere di “far vivere o di respingere nella morte”.

Lo sguardo medico (e biometrico) intende ed esercita in questo caso la cura come prigionia, ed opera la “salvezza” dei dannati come riscrittura d’un soggetto sempre potenzialmente “criminale”, pericoloso o patologico, come se si potesse cancellare con un bisturi la sofferenza delle proprie vite precedenti, o le ragioni di una condotta inopportuna, “sbagliata”. Fin al punto di privare la protagonista del suo stesso cervello, di “infantilizzarla” nel senso più letterale del termine, trapiantandole quello d’una figlia non voluta necessariamente migliore di lei (adattabile, riscrivibile, educabile). Obbligandola ad essere madre persino di se stessa (se non c’è altro da aggiungere, da additare al suo corpo). Fin al punto da decidere di farla resuscitare e (ri)vivere contro la sua stessa volontà, e di azzittirla con fazzoletto avvelenato ogni qualvolta a quella vita nemmeno scelta possa sfuggire tuttavia di esprimersi anche in quanto vita (forma scalpitante, annoiata e volgare, zotica e scomoda, rumorosa). Fin al punto che persino la sua lunga fuga erotica viene semplicemente “concessa”, lasciata fare (sei un esperimento, e vai a sperimentare!).

Aprite qualche cadavere, inventate qualche isteria, suvvia, tanto dove va a finire l’eresia errante ed erotica di Bella Baxter nella sua avventura di formazione? Dove ci porta (tutte)?

Su una nave da crociera Bella incontra per caso un riassunto di filosofia, “spicciolo” quanto vero. Non ti crucciare nella speranza d’un buon cuore, d’un faticoso sentimento, ché per “essere umano” sarai sempre da una parte o dall’altra di queste antiche sabbiose barricate: a guardare i bambini poveri che muoiono ammassati o a marcir tra di loro senza poterti muovere. Non c’è scampo né divenire per questi due unici ruoli intercambiabili: macigni fragili di carne umana. (O meglio abissali “differenze di classe”, ma il buon tono dell’audiovisivo ha da tempo abolito questi scurrili termini).

La lezione sul quieto vivere mentre i poveracci di tutto il mondo davvero muoiono Bella non voleva ingurgitarla, e così si ribella al cinismo e improvvisamente si commuove. Peccato che la classe lavoratrice dei marinai la derubi prontamente della sua ingenuità, e tutto torna come prima, eccetto colui che poteva mantenerla: il cialtrone uomo ricco (uomo di Legge, dunque d’azzardo e d’idiozia).

Dopo aver quasi sindacalizzato un bel bordello parigino, scoprendo che il piacere è merce quanto ogni altra cosa, e che pure gli ultimi maschi, con sufficiente potere d’acquisto, devono poterlo da te ricevere (diciamo anche pretendere), uno spiraglio di umanità s’affaccia nuovamente sul suo sguardo da Oscar: “Non so più cosa provare”. Depressione? L’unico sentimento complicato e critico che (almeno) si affaccia nel glorioso cammino della macchina-diva (come un tic irrisolto, irrisolvibile, di ciò che resta d’umano ad ogni umana, ad ogni donna manipolata, e perciò colma di sofferenza mai interamente dicibile).

Nel crudele dessert chiamato finale, l’avventura nell’emarginazione si riavvolge improvvisamente su sé stessa.

(Reazione. Si torna a casa come prima!).

Accettando ogni virgola della sua predestinazione, Bella si vuole persino sposare. E nemmeno prova un filo di rabbia per il suo padre padrone, per la sua esistenza tutta a forma di inganno. Ma perché torni? “Ho fiducia” (Nel creato? Nel sistema? Nel cachet?).

Quando sta per contrattualizzarsi col buon medico di campagna che nemmeno ama, che nemmeno desidera, spunta fuori dal cappello a cilindro il suo primo tiranno-marito, l’altro manipolatore (è certo vero che non ne subiamo mai uno solo!). Bella senza colpo ferire, invece di compiere il parricidio sceglie immediatamente di diventare suo padre (padre-padrona). Certo, in una versione aggiornata dell’intramontabile ruolo, che piaccia al pubblico attuale. Moderna, poligama, fluida, dove il piacere che viene da altrove potrà convivere con la presenza-assenza d’un marito di facciata e accomodante, per quel tanto di usato e tradizionale che deve restare se sposi il concetto stesso di matrimonio, fosse pure in forma di trittico.

Se in passato ha infilzato qualche cranio per puro divertissement, è giusto infine che Bella diventi medico, e magari primario (classe sempre abbiente, dunque dominante). È il solito leitmotiv: la prima donna medico, la prima donna avvocato, la prima donna commissario… senza mettere in discussione l’ideologia e le implicazioni di un mestiere, qualsiasi genere ne incarni il potere e la direzione (e l’arrivare prima, la vittoria nel premio).

Macchina: fatti padrona! E così dopo aver manipolato a sua volta dei cervelli (umani e persino animali), asserviti come schiavi al guinzaglio nel suo ampio giardino, nell’ultima inquadratura Bella sorseggia un Martini mentre ordina alla nuova serva di far ciò che deve fare: servirla, in quanto padrona. (La quotidianità di una mestierante aristocratica è l’agiata vacanza su una sedia a sdraio).

La nuova serva sperimentale era stata creata ad hoc nella parentesi della sua avventura femminista, più stupida di lei e ugualmente “carina”. Come ogni uomo, Bella sogna il comando e da quella posizione usa tutto ciò che è sua portata: il capitale umano dal padre ereditato. Dunque le macchine-femmine non sono tutte “sorelle”?

A quanto emerge da diverse esternazioni, lo sceneggiatore televisivo che ha scritto il film di Lanthimos teneva a questo finale, assai diverso da quello letterario. Ciò che stupisce è leggere le undicimila recensioni che inneggiano a Poor things come “fiaba sull’emancipazione”, “racconto sulla costruzione della femminilità”, “rivoluzione dell’arte”, “assalto al patriarcato per un Barbie riuscito”, e alla diva-protagonista come “icona femminista che guarda oltre i condizionamenti sociali”, che incarnerebbe “conoscenza, speranza, volontà, entusiasmo, eccitazione”, e la “metafora e la personificazione di una liberazione” persino capace di “auto-realizzarsi attraverso gli abiti”. Dicono i più che la mitologica autodeterminazione passerebbe proprio per quei costumi, là dove l’eccentrico (il “fuori dal centro”) si esaurisce nella sua costosissima circonferenza, gonfia d’aria nelle sue maniche a sbuffo, non di spessore.

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La riscrittura della femmina

La riscrittura della femmina di Lanthimos tenta di rimodernare la magra bambolina di plastica che ancora dovremmo desiderare essere, o sforzarci di divenire… In cosa si differenzia allora un film prodotto dalla Mattel Films da quello di un grande Autore che ha scelto consapevolmente, come spesso accade, di divenire un marchio egli stesso? Ma soprattutto perché aspettarsi una rivoluzione da una pellicola costruita per il mondo premiale dei grandi festival, distribuita (e in realtà anche prodotta) dall’impero Disney? Da quel ramificatissimo Disney Magic Kingdom, lunapark e sanatorio che da un lato riscrive in forma di fiaba la domesticazione di macchine servili e dall’altro consuma il suolo del mondo per ovunque edificare città e quartieri del divertimento costoso e ammaestrato, sorretto da un esercito di lavoratori sottopagati, che devono tacere e indossare persino i suoi stessi “favolosi” ingombranti costumi?

“Disney è sicura e splendente perché è controllata da innocenti sguardi extra, che mantengono una costante sorveglianza” (D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2002, p. 76). Sono sotto controllo i gesti delle famiglie consumatrici di sogni stilizzati e quelli di chi sorveglia “amicalmente” tale consumo. Ufficialmente vengono chiamati cast members: figuranti. Nella loro formazione è incluso un corso settimanale di “tradizione Disney”: “perché le tradizioni sono importanti”, spiega il gestore del personale abbigliato con la cravatta di Topolino. Fingiamo sia macabra ironia il fatto che i salariati Disney siano davvero delle comparse, poiché la loro immagine è obbligatoriamente ceduta all’agenzia pubblicitaria del parco, “per tutta la durata del contratto e per i trent’anni che ne seguono la fine”.

La fabbrica di favole cinematografiche ugualmente chiamata Disney non produce frutti così diversi da quell’abisso tra le classi. E dovremmo essere ogni giorno spettatrici paganti di opere femministe costruite all’occorrenza anche dalle donne. Del “female empowerment” come “selling point”, ha scritto qualcun altro. Si potrebbe anche dire che la donna-artista, ancora schiacciata nel tentativo impervio di veder riconosciuto “il proprio prodotto”, “il proprio lavoro”, cercando d’inserirsi nell’unico contesto che lo concede (la logica premiale dei festival) è pronta a sceneggiare su misura un femminismo docile e addomesticato, per il quale autodeterminazione vuol dire complice opportunismo, dove la lotta è per “il primo posto” sul podio. A riprova che la donna è amabile solo se è disposta a infiocchettarsi di tutto punto per l’industria culturale, se quel potere direttivo e decisionale è imitato e amato come un “contro Impero” invece d’esser messo in causa dalle sue fondamenta, come dominio di una classe, controllo industriale dei corpi (in quanto carne e in quanto immagine).

È pur vero che alcuni film apprezzati, che siano scritti o meno da sceneggiatori maschi, riuscivano a infilarsi nelle faglie dei ruoli (Ritratto della giovane in fiamme, La donna elettrica), ma in questi anni di reazione urge più di prima il ritorno a un femminismo che sappia essere di classe, ovvero sabotare il sistema intricato da cui la manipolazione del corpo femminile deriva: l’istituzione culturale ed economica, urbanistica e comunale, sanitaria e giuridica, familiare e scolastica. Fosse pure “dall’interno”.

Scopro che le donne sono inquiete, spesso apertamente insoddisfatte del peso esistenziale che le limita, e sottotraccia oscuramente motivate a capire che cosa non funziona, e come rifiutarsi di pagare le penali introiettate nell’infanzia, tutte a scadenza illimitata. Ancora manca la consapevolezza del sistema penalizzante nella sua interezza, nelle sue cause, nelle sue motivazioni.

Cecilia Mangini, Essere donne (Note di regia al restauro dell’opera, 2013)

Con queste parole di un cinema ben diverso, potremmo commentare un altro film che nello stesso anno incassa milioni di milioni anche grazie ad una quota di femminismo fattosi docile. C’è ancora domani: uno dei tanti esempi italici di “cinema televisivo” ma anche, per il messaggio che fieramente porta, uno strano caso di “propaganda a ritroso”.

Può darsi che io, che non voglio più pagare le penali di violenza introiettata nell’infanzia (e oltre), che sono cresciuta in quel patriarcato casalingo di cui ugualmente le ferite, come nella protagonista del film, svaniscono alla vista d’occhi esterni come fossero prodotti da inchiostro invisibile (così come è necessariamente invisibile la compagine di poteri che lo promuove ed autorizza), io che forse tenterò invano per tutta la vita di non esercitare più l’esperimento disumano d’un sanguinoso sud, ma non per questo vorrei assumere le sembianze di ciò che mi ha quotidianamente marchiato e formato nella coercizione, né vorrei vedere altre macchiette di una violenza domestica stigmatizzata e semplificata per essere rivenduta in forma di mielosa merce al grande pubblico pagante, e con la stessa rabbia inestinguibile pretenderei che la complessità dell’esser figlia di quel sistema punitivo reale tornasse in una superficie finalmente spessa opaca e complessa (se proprio dev’essere continuamente raccontata solo perché vende bene). E mai andrei a votare col sorriso di massa stampato in fronte quella Democrazia Cristiana, oggi Pd, al di là di qualsiasi genere assunto dalla Presidente o dalla Segretaria di partito per permettere di camuffarne l’oppressione, né chiamerei libertà il sistema della delega, insegnando a una figlia che una repubblica ti renderà gioia e vendetta, in quello stesso sistema democratico che monetizza e annienta nei suoi lager ogni povera creatura che voglia vivere, in quello stesso identico paradigma pronto a manganellare donne e uomini dentro e fuori le mura domestiche, sotto ogni sede della Rai, in un paese che pretende di occultare sotto gli antichi “costumi trasgressivi” dei vecchi e nuovi media persino un massacro, persino trentamila morti che nessun cinismo d’Autore potrà farci accettare o dimenticare, per distogliere lo sguardo dall’abisso e applaudire una diva milionaria.

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