“Il mercante di Venezia” di Shakespeare: la Giustizia è di piombo

di Francesco Bercic

Inizia sulle orme di Shakespeare la nuova stagione al “Rossetti” di Trieste, con Il mercante di Venezia (regia di Paolo Valerio) che dà l’avvio a una programmazione che sembra già incontrare i favori del pubblico. Dalle otto di sera in poi infatti nei dintorni del teatro si affolla un gran numero di persone, come non se ne vedevano da molto tempo, e già questa potrebbe rappresentare una prima grande rivincita per l’industria teatrale, nonostante si tratti del primo spettacolo dell’anno.
Gli stessi volti delle persone paiono tradire dapprima una sorpresa, quasi un piacere nel vedersi circondati da altrettanti simili; poi uno spaesamento, come se non si sapesse bene calcare un terreno che l’anno scorso ha conosciuto molta meno gente. Ma c’è un dato che reca ancora più stupore, a ben guardare: sembra infatti appiattirsi quel solco generazionale che ha segnato la scomparsa dei giovani nei recenti spettacoli. E sono proprio questi ultimi a emergere da una cornice così sorprendentemente eterogenea.
Giunti dunque al proprio posto carichi di queste emozioni, la primissima scena sembra porsi come naturale continuazione di tali impressioni. Il mercante di Venezia si apre con l’animata diatriba fra il melanconico Antonio e i vivacissimi Salerio e Solano, che si prendono gioco della sua strana infelicità da “vecchio saggio”, opponendogli la leggerezza di chi ha ancora tutto da perdere e non ha bisogno delle sue prediche retoriche.

Sono ovviamente numerosissime le chiavi di lettura di un’opera di Shakespeare, a partire proprio da questo iniziale contrasto; e davanti all’immensità de Il mercante di Venezia non si può che privilegiare una direzione, ignorando ipocritamente la profonda vastità delle sue suggestioni. Dunque, sarà per la curiosa continuità fra il pubblico e la scena, sarà per chissà quali altri motivi, ma il punto nevralgico sembra inevitabilmente essere lo scontro generazionale, la sfida tra l’intraprendenza e la disillusione, tra immobilismo e dinamismo, filtrate da una dolce generosità. La celebre sinossi si gioca sulla possibilità che è data al giovane Bassanio di mettere in dubbio il fatalismo sospirato del maturo Antonio, proprio grazie ad un altruistico prestito di quest’ultimo. E il gioco su cui si dipana non potrebbe che essere un “capriccio d’amore” (come viene tradotto nel complicato lavoro di sceneggiatura).

Il sogno d’amore del giovane ha le fattezze di un “rischio”. Certo non suo, ma paradossalmente proprio di Antonio che l’ha finanziato. Una scommessa anzitutto materiale (poiché il prestito è reso possibile dal carico di alcune navi non ancora attraccate), che diventa però ben presto esistenziale. Antonio, per permettere al giovane di inseguire le sue speranze, mette in gioco la sua stessa vita, garantendo a Shylock (il creditore cui Antonio chiede il prestito) una libbra della sua carne, da offrire nel caso in cui le navi non attraccassero rispettando i tempi dell’affare.
Shakespeare, nell’interpretazione di Valerio – il quale, soprattutto nel primo atto, insiste molto (e con grande maestria) su questo punto – sembra così suggerire che l’unica via possibile con cui ambire a un sogno sia rischiando la pelle, mettendo sul tavolo la carta pesante della vita. E lo scontro generazionale si nutre del contrasto che evoca proprio la figura di Antonio, così disillusa eppure pronta a sacrificarsi per l’energico compagno.

Né il “desiderio di molti” (“what men desire”, nell’originale), né la meritocrazia (“what he deserves”) riescono a carpire il senso di un’ambizione d’amore. Il destino si articola diversamente, sfugge alle logiche del mondo. Diventa emblematica la magnifica scena dello scrigno corretto, il solo che porterà il candidato nelle braccia della sposa, dove la verità – l’unica che incarna la realtà della vita – non si trova né nell’oro né nell’argento, ma nell’ultima, umilissima possibilità: nello scrigno di piombo.
“Who chooseth me must give and hazard all he hath”, dice Shakespeare. Il sogno è realizzabile solo per colui che rischia, “rischia tutto ciò che ha”. Nel nostro caso, l’amicizia per Bassanio, o la propria vita per Antonio.

Ma dove conduce il sogno, l’aspirazione, l’intimità di un desiderio? La trama a questo punto si complica, si mostra tutta la genialità di Shakespeare, la realtà scenografica prende ritmo (già di suo molto concitato) in una serie di capovolgimenti inaspettati e repentini. Si manifesta con altrettanto vigore il personaggio di Shylock, nell’interpretazione di Franco Branciaroli (forse a tratti fin troppo esagerata, rischiando di scivolare in una caricatura).
Con la scomparsa delle navi di Antonio, il rischio assume i contorni di una follia, una scelleratezza che grava sulla vita del mercante. Il percorso tracciato conduce direttamente al processo, con Shylock osteggiato e tacciato di intransigenza, “il cane più inflessibile che sia vissuto fra la gente” (con tutto il corredo di antisemitismo e annessi e connessi). La Legge sembra imporsi fatalmente, mediata dal ferreo carisma dell’ebreo. Il destino pare sorridergli, a scapito dell’ingenuità adolescenziale e della fidata complicità dell’amico.

Invece, quando già il coltello si accinge a scalfire la pelle del malcapitato, tutto si ribalta. Grazie a un escamotage legislativo della novella sposa (una Valentina Violo in grande forma), il processo si risolve a sfavore dell’ebreo, privato addirittura dei suoi beni. Apparentemente, il sogno giunge a compimento, e la volatilità della sorte è espressa nell’irridente simbolismo delle navi, che tornano in patria remunerando lo stesso Antonio, fino a qualche istante prima dato per morto. Parrebbe il perfetto lieto fine, il compimento della commedia, il naturale “vissero tutti felici e contenti”. Ma, come Shakespeare fa intendere, e come lascia intendere la stessa lettura di Valerio, è soltanto “apparenza”.

Non ci può essere infatti – assomiglierebbe altrimenti a una infeconda forzatura – nessun tipo di chiave morale, men che meno un elogio del rischio. C’è, invece, nel tragico finale della morte di Shylock (costretto infine a convertirsi per volere di Antonio), la stessa rassegnazione stagnante con cui l’opera si apre, in una sorta di ciclicità. Coloro che fino a un istante prima erano “i buoni”, diventano gli artefici della uguale morte che stava loro per condannare. L’egoistica severità dell’ebreo si scopre presto essere un male comune. Sono tutti “capricci”, non ci può essere giudizio. Anzi. Shakespeare ride di ogni lettura moralisticheggiante, in un trionfo della mediocrità, dove chiunque alterna il sussulto di una speranza all’asprezza di un ridimensionamento, serbando potenzialmente gli stessi sentimenti. Così si conclude il contrasto formale fra Bassanio e Antonio, in un’atmosfera pressoché identica alla scena iniziale, rivelando il carattere ambiguo e evanescente che separa solo in superficie due età della vita, due sensibilità.

In mezzo a questa diversa ma in fondo uguale contraddittorietà dei personaggi, si muove la Giustizia, irrisa anche lei, evocata con lo stesso tocco beffardo – la bilancia portata prima dall’uno poi dall’altro, infine dimenticata nell’aula ormai vuota del processo. La verità d’altronde, ci aveva già avvisato Shakespeare con il primo atto, è di piombo.

1 COMMENT

  1. Grazie per il commento evocativo e pregno di sapiente e compiaciuta potenza critica ,..davvero Shakespeare con Lei è modernamente intellegibile ,attuale e umanamente vicino nella sua unica bellezza
    vicino

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