“Il signore delle formiche” di Gianni Amelio: chi sono i veri mostri?

di Francesca Plesnizer

Il signore delle formiche, l’ultimo film di Gianni Amelio (La tenerezza, Hammamet) è stato presentato in anteprima alla 79° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove era anche candidato al Leone d’oro, ed è nelle sale italiane dall’8 settembre scorso.

Amelio sceglie di narrare una vicenda realmente accaduta negli anni ’60 in Italia, che ebbe per protagonista il drammaturgo e poeta omosessuale Aldo Braibanti (interpretato da Luigi Lo Cascio), condannato a nove anni di reclusione per plagio.

È Braibanti il “signore delle formiche” del titolo: l’intellettuale era un grande esperto e studioso di formiche, interessato soprattutto alle loro dinamiche sociali. Dopo un passato da partigiano, Braibanti era tornato nel suo paese natale, vicino Piacenza, mettendo su la sua “Torre”, un casolare di campagna che fungeva da centro culturale, frequentato da giovani studenti e intellettuali nonché da attori e attrici che recitavano nei suoi drammi.

Amelio racconta i fatti senza seguire un ordine cronologico. Il film si apre infatti con una sequenza ambientata nella metà degli anni ’60 a Roma, durante una festa dell’Unità. Vediamo il giornalista dell’Unità Ennio Scribani (Elio Germano) alle prese con delle fastidiose formiche, e subito dopo Braibanti, seduto qualche tavolo più in là con un ragazzo. I due si decantano reciprocamente delle poesie, in modo tenero e complice; scherzano, si sorridono felici (sono soprattutto i loro occhi, a sorridere) poi se ne vanno a casa insieme.

La mattina dopo, il fattaccio: la madre di quel ragazzo viene a prenderlo con la forza e lo fa internare in un ospedale psichiatrico dove viene sottoposto a ripetuti elettroshock per “convertire la sua inversione”, ovvero la sua omosessualità. Perché, come viene detto nel film ad un certo punto, “Gli invertiti hanno due strade: o si curano o si ammazzano”, frase, questa, che il regista teneva particolarmente a inserire poiché se la sentì dire lui stesso, omosessuale anch’egli, a soli 16 anni.

Ma ecco l’antefatto: quel giovane ragazzo, Ettore Tagliaferri (interpretato dall’esordiente Leonardo Maltese), conosce Braibanti presso “La Torre” nel 1959. È suo fratello Riccardo a portarlo lì. Ettore ha vent’anni e studia medicina senza convinzione: è la carriera che sua madre ha scelto per lui. Il giovane viene da una famiglia fortemente cattolica e rigida, e rigido, rancoroso e rabbioso è anche suo fratello Riccardo, che ben presto, mostrata la sua vera natura, viene a noia allo stesso Braibanti, che resta invece subito affascinato da Ettore. Il sentimento è reciproco: nonostante gli oltre quindici anni che li separano, Ettore e Aldo si innamorano.
È facile, da spettatori, dire che cos’è che li fa invaghire l’uno dell’altro. Ettore è bello d’una bellezza giovanile, tenera e un po’ ingenua, disincantata; è uno spirito libero, leggero e puro, tremendamente diverso dai suoi familiari, pesanti e retrogradi, imprigionati nelle convenzioni sociali e religiose. Ettore ha fame, fame di vita e libertà, ma soprattutto fame d’arte: ama dipingere e lo confessa subito a Braibanti, che lo incoraggia ad abbandonare gli odiati studi di medicina e a seguire la sua vocazione.

Anche Braibanti è attraente, seppur in modo completamente diverso: ciò che colpisce Ettore è senza dubbio la sua cultura, la sua ostentata sicumera, i suoi modi seducenti, il suo parlare schietto che lo fa essere anche, al contempo, enigmatico, quasi irraggiungibile. Come dirà anni dopo Ettore durante l’umiliante processo a Braibanti, tentando di difenderlo, Aldo era l’unico che lo innalzava dalla mediocrità dalla quale era circondato.
È un incontro fatale, il loro, poetico e ardente, che fa presagire l’inizio di un rapporto che andrà difeso da brutture e volgari fraintendimenti.

Nel ’64 Braibanti se ne va a Roma, asfissiato dalla provincia piacentina e dalla mentalità piccola e omofoba che lì serpeggia – persino sua madre Susanna (nomen omen: come la madre di Pasolini, un altro intellettuale dal destino simile che Amelio ricorda con alcuni indizi disseminati nel film) viene ripetutamente aggredita e indotta a vergognarsi, anche dalla stessa madre di Ettore.

E quando Braibanti se ne va, viene raggiunto da Ettore, deciso a fuggire anche lui, dopo aver volontariamente tagliato i ponti con la sua soffocante famiglia. Il resto è storia nota: per il loro essere “invertiti”, per aver osato vivere il loro amore, i due finiscono rispettivamente in un ospedale psichiatrico e in prigione. Braibanti, oltre che omosessuale, viene anche tacciato d’essere un pederasta, nonostante Ettore avesse vent’anni, all’epoca del loro primo incontro.
Il reato di omosessualità non era contemplato dal Codice penale, ma quello di plagio sì, dall’epoca fascista (dal 1930, per la precisione): era l’articolo 603, poi abrogato nel 1981, che recitava: “Chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di assoggettamento, è punito con la reclusione dai cinque ai quindici anni”. In parole povere: la famiglia di Ettore accusa Braibanti di aver sottoposto il loro figlio ad un lavaggio del cervello e di averlo indotto a rompere i contatti con loro. Ettore viene considerato una specie di pupazzo, un poveraccio non in grado di intendere e di volere, un malato da curare, da far tornare sulla retta via, quella dell’eterosessualità.

Un giornalista, il sopra citato Ennio Scribani, si prende a cuore il caso (sarà poi chiaro perché). Presenzia al processo e si reca più volte a parlare in privato con Braibanti, presentandosi a lui come una figura amica, più che come un cronista. Scribani vuole prima di tutto capire perché Braibanti non si difenda da quelle accuse ingiuste e infamanti. La risposta che riceve è disarmante, spiazzante: perché non c’è nulla da cui difendersi, non c’è alcun reato.
L’incontro con il giornalista è provvidenziale: Braibanti si convince in seguito a raccontare i fatti così come sono avvenuti. Sì, tra lui ed Ettore c’era stata una relazione anche sessuale, naturale e consensuale. Ma lui, a differenza di Socrate, non intende affermare che le leggi sono giuste solo perché sono leggi e che vanno quindi sempre rispettate: le leggi che lo stanno accusando sono ingiuste, e lo dice a gran voce.

A sorpresa, arriva in aula anche Ettore, spettro di se stesso, del ragazzo vitale e appassionato ch’era stato. Pochi capelli, sguardo perso e assente, spaventato, mansueto come un piccolo animale indifeso tenuto troppo in gabbia. Sulle tempie i vistosi, terribili segni degli elettroshock. Tuttavia Ettore è lucido, quando si rivolge alla corte, parla con qualche incertezza ma sa quel che dice: anche lui ribadisce che ciò che c’è stato tra lui e Aldo era amore, un amore che lo ha elevato e fatto crescere, un amore istintuale e voluto, desiderato. Ma l’intervento del ragazzo peggiora le cose: l’accusa insiste a dire che egli è plagiato, soggiogato, che non sa quel che dice.

A poco valgono le proteste di studenti e giovani intellettuali radunati davanti al Palazzaccio, il Palazzo di giustizia capitolino (durante una di queste sequenze, fate caso a chi compare per un breve ma significativo cameo). E a poco vale anche il sostegno e l’aiuto fornito da Scribani, sempre accanto a Braibanti, sempre pronto a lottare per lui e con lui, perché il drammaturgo viene condannato a nove anni di reclusione per plagio.

Lo Cascio recita in uno dei suoi ruoli migliori: è perfettamente calato nel personaggio, tanto da suscitare in chi guarda, all’inizio, sconcerto e anche fastidio, visti i suoi modi arroganti e la sua ostentata sicurezza; la vita di Braibanti ruotava tutta attorno ad un perno rappresentato dalla sua cultura, dal suo amore per la scrittura e la drammaturgia, e Lo Cascio riesce a trasmettercelo. Così come ci trasmette l’attrazione per Ettore, sorprendente e potente, che stupisce lui stesso in primis e che è anche cura dell’altro, voglia di insegnargli, voglia di proteggerlo, voglia di scoprirlo e amarlo con dolcezza. Una menzione speciale all’esordiente Leonardo Maltese nei panni di Ettore: un’interpretazione, la sua, quasi eterea, piena di delicatezza; ogni sua battuta è una domanda inespressa, le domande di chi anela a sapere, scoprire, crescere, imparare, vivere libero.

Elio Germano, nei panni del giornalista, mostra ancora una volta la sua bravura e versatilità: Scribani è un personaggio ironico e caustico, ma anche fragile e introverso, che non rinuncia a difendere ciò in cui crede.

Braibanti era stato per Ettore un maestro, il primo grande maestro – forse l’unico. Ma i maestri si possono (si devono?) anche metaforicamente uccidere, e farlo è un atto di creatività e libertà di sapore nietzscheano, come Braibanti spiega ad Ettore in una delle loro conversazioni. Eppure, Ettore non ha avuto né il tempo né la possibilità di uccidere il suo maestro, perché lo hanno ucciso gli altri, i mostri mediocri, al posto suo, facendo a pezzi anche il loro mondo, quello che Braibanti aveva costruito per Ettore, quello che Ettore aveva costruito per Braibanti.

Può un maestro diventare anche un amante? Sì, ci insegnano i greci antichi e la loro cultura, sì, ci racconta ad esempio il Simposio platonico. Perché la trasmissione del sapere, il fascino della cultura posseduta da Braibanti (che, Ettore lo dice, era ciò che in un primo momento lo aveva colpito) può essere qualcosa di erotico ed erotizzante: un pieno che riempie un vuoto. Un pieno che poi si svuota a sua volta, in un atto di generosità disinteressata, la più disinteressata di tutte.

“È tua”, dice Braibanti ad Ettore, riferendosi ad una poesia che gli aveva scritto. Quello che lui aveva dato e trasmesso a Ettore, aveva poi cessato d’essere cosa sua.

Il film mostra sapientemente il contrasto tra un amore timido, delicato ma impetuoso e vivo, pulsante di intelletto e creatività, e la bruttura d’un mondo che si esprime urlando, sgolandosi, schiacciando con fare paternalistico, bandendo il diverso e l’abnorme, mettendolo alla gogna.

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