La lingua che accade. Su “Popoff” di Graziano Gala

di Antonella Angelini

Molti libri ambiscono a raccontare storie. Alcuni riescono a farlo, e anche bene. Pochi, leggendoli, danno la sensazione che stia accadendo qualcosa. Di questi, quasi nessuno insinua il dubbio pruriginoso che le parole, le nostre parole, possano non essere adeguate a dire cosa sta accadendo.

“Popoff”, l’ultimo libro di Graziano Gala, edito da minimum fax, non è solo un romanzo, ma un accadimento linguistico: qualcosa che avviene, più che qualcosa che si narra. Lo è il Popoff personaggio che, da bimbo ancora privo di nome – seppure un nome, quel nome, un nome verbo, un nome ente, sia suo da sempre – irrompe in scena, facendo “pop”. Lo è la lingua, essa stessa evento, sfavillio effimero e commovente che nasce ed esiste solo per dire questa storia. Lo è, infine, la storia: un bambino che bussa alla porta di un estraneo e chiede di suo padre.

Da quel gesto minimo si apre una fenditura. Tra il bambino e l’uomo che lo accoglie – a metà – si consuma un avvicinarsi che è anche una lotta: due solitudini che provano, inciampando, a riconoscersi. Intorno, il paese – arido, crudele, quasi esausto – osserva e amplifica la loro esitazione.

La ricerca del padre diventa così una ricerca di lingua, di un modo di abitare e di dirsi nel mondo: perché se i gesti e le parole del paese sembrano logori, il legame che si tenta di costruire tra i due – bambino e adulto – diventa il laboratorio in cui Gala misura quanto la lingua possa ancora salvare, o almeno nominare, ciò che resta umano.

È qui che Popoff diventa davvero un evento: perché quella comparsa improvvisa, che scuote il linguaggio e le abitudini, non riguarda solo i personaggi, ma chi legge. È un trauma che tocca la lingua, che la incrina. Quest’apparizione imprevista è traumatica perché reca con sé l’eco delle sue repliche e, molto più spaventosamente, l’annuncio delle possibili ripetizioni future. È spettro e vampiro, l’evento. Forse siamo noi, ora, i figli, quelli che chiedono, ma qualcuno, forse, un giorno, verrà a chiederci. E per quanto in questa storia la domanda sia chiara, quasi fosse un attributo di Popoff, che emerge pronunciandola, il suo baricentro è mobile ed evolutivo. Dal chi si sposta al che cosa ci ha generati, dalla ricerca del padre – perso o mai conosciuto – al da dove vengo e a quali condizioni posso fare di questo posto casa.

Perché il libro di Graziano Gala è splendidamente corale: rigurgita di personaggi-marionette, come quelli dei giochi dell’infanzia, in cui un calzino può essere qualsiasi cosa, e non smette mai di essere cosa e personaggio allo stesso tempo.

Non a caso, nel libro ciascuno parla la sua propria lingua; non a caso, in nessun dialogo il senso si scambia attraverso la condivisione di una lingua. Alcuni personaggi sono impastati con la malta di vari dialetti meridionali, altri di anglismi, ma il rinvio geografico è, più che identificativo, evocativo di una certa gerarchia sociale tra potenti e disgraziati. Opera invece in maniera trasversale l’idea di una lingua privata, un idioletto, globo avvolgente tramite cui i personaggi entrano in contatto senza mai toccarsi.

Ancor più che in quella dei personaggi, è nella lingua del narratore che Graziano Gala fa accadere le cose. Imprime loro un ritmo da filastrocca sghemba, rallentata o arrestata ad arbitrio, spesso a fiaccare l’aspettativa, e presto la semplice speranza che la cadenza rapida ripristini una parvenza di leggerezza. Fa del neologismo e della manipolazione sulle parti del discorso il nucleo dello sforzo di andare oltre i limiti del linguaggio comune, per provare a raccontarci davvero.

La parola nuova non si preoccupa di giustificare il suo scarto rispetto alla parola corrente con la quale è imparentata. Si direbbe – come nel parlare di alcune persone per le quali l’italiano standard è un esotico maneggiato con estro e nessuna vergogna – che una riserva occulta di senso venga semplicemente attivata. Ancor di più: gli attributi e le funzioni delle parti del discorso si riconfigurano per fare da specchio al nostro essere in relazione. Un esempio su tutti: il passaggio da transitivi a intransitivi, o viceversa, di alcuni verbi. Se la violenza delle relazioni è ammissibile, se su questo possiamo transigere, allora anche i verbi possono e devono riflettere questa torsione della transitività, farla sulla lingua.

Attraverso questi interventi, mediante la loro specifica logica e capillarità, la stortura si innesta sulla lingua senza moralismo, senza volerne fare una bruttura È piuttosto un lavoro che scompone e riarticola a livello di particelle elementari.

Lo stesso accade alla vita quotidiana, che si mostra in forma di carcassa. Il supermercato, la chiesa, le strade e, sopra tutte, la piazza sono abitati dallo spettro dei loro usi, della loro utilità. E se questa sottrazione è svelatrice, essa non è però liberatoria. Spogliati del paravento del nostro andare dietro ai consumi, dietro alle nostre attività, la grammatica del bisogno elementare sembra farsi spiazzante, tanto che non si sa più neanche come fare il pane per sfamarsi. Spogliati dall’illusione di ospitare le rotte di vite operose, gli spazi pubblici si fanno arena e teatro, nel senso etimologico di luoghi dove si guarda, si è testimoni, di una performatività di soprusi ripetuta, cocciuta, coatta.

Il paese di Popoff è, dunque, inoperoso. Questa condizione, anziché permettere di sottrarsi alla coazione dell’agire, contiene una spinta irresistibile all’atto violento. Per questo il paese di Popoff è anche, e soprattutto, ingiusto: perché, parafrasando Simon Weil, essere giusti vuol dire rinunciare alla possibilità di esercitare la forza che possediamo. In questa storia, nessuno, o quasi, sia esso nostro padre o un altro, è capace di farlo.

D’altra parte, la rinuncia presuppone di conoscerla, quella forza. Invece, si scopre che sono i personaggi adulti di Popoff a ignorare tutto di sé stessi. Il fallimento non è soltanto di un singolo, ma di tutti; non un male delle relazioni a due, ma del nostro modo di essere in relazione. Non sappiamo stare in piazza: essa è un luogo spaventoso, una steppa.

Viene in mente, allora, il volto stretto tra il broncio e il corruccio di Walter Brugiolo. Lo si rivede scandire, più che cantare, serio di cosacchi e di grandi freddi, cose che gli stanno addosso come un abito troppo ingombrante. Era lo Zecchino d’Oro del 1967. I Walter Brugiolo sono i padri dei trentenni di oggi: padri così ignari che quasi si può arrivare a perdonare loro il non sapere rinunciare alla potenza; padri cui si può, forse, perdonare proprio quella primaria ignoranza. E da lì si può anche sperare che un luogo possa essere nuovamente abitato e farsi nostro, che chi chiedeva del padre trovi il modo di fare casa.

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