“La sicurezza prima di tutto”

di Giuseppe Nava

bhopal

L’anno 1984, prima ancora che a Orwell, mi fa pensare a Bhopal. Di sicuro perché subisco una certa fascinazione per gli eventi traumatici che costellano la storia, per un senso di fratellanza e di solidarietà verso quei tanti anonimi che subiscono tali eventi; qualcosa del tipo “Come stai, cosa è successo?”. Bhopal però porta in sé anche notevoli implicazioni politiche, perché quello che viene definito come il più grave incidente industriale di tutti i tempi mi appare come una sorta di archetipo, spaventoso e assurdo, di tutti gli incidenti di questo genere.

La Union Carbide, colosso americano della chimica, che negli anni ’70 decise di costruire una fabbrica per la produzione di pesticidi in India, poteva apparire come un’azienda “illuminata”, animata non solo dal mero tornaconto, ma anche dalla convinzione di poter contribuire davvero a un “progresso umano”. Il pesticida Sevin, prodotto di punta della UC, avrebbe forse potuto davvero aiutare i contadini indiani a salvare le proprie coltivazioni, flagellate da ogni tipo di insetto. E la fabbrica portò di certo molto lavoro, in un paese in cui la povertà è un problema enorme. Ma tra le carte in tavola ce n’è sempre qualcuna che non si può prendere. Oltre che con gli insetti, i contadini indiani avevano a che fare anche con tremende siccità e alluvioni monsonici – cose contro cui la UC non poteva nulla. Per questo le vendite di Sevin non raggiunsero mai i livelli sperati, e nel 1984 l’azienda mise da parte gli ideali per agire come ogni attività economica in difficoltà: per prima cosa bisogna tagliare i costi. Nella fabbrica di Bhopal dirigenti e operai specializzati vennero sostituiti con personale generico, i costi di manutenzione furono drasticamente dimezzati, e la produzione a ciclo continuo fu interrotta.

Perché la UC produceva a ciclo continuo? Uno degli “ingredienti” del Sevin era l’isocianato di metile, detto MIC, un composto chimico altamente instabile (va in ebollizione a 40° C, e reagisce alle minime impurità) e terribilmente letale. È talmente pericoloso che la UC stabilì per regolamento che non doveva per nessuna ragione essere immagazzinato, ma subito impiegato nel processo di produzione del Sevin. Invece, all’inizio del dicembre ’84, in uno dei serbatoi di stoccaggio della UC di Bhopal, c’erano almeno 40 (quaranta!) tonnellate di MIC. Senza contare che l’impianto di refrigerazione del serbatoio era stato spento. Non male per una società il cui motto era “Safety first” (“la sicurezza prima di tutto)”.

Durante il turno di notte alla UC tra il 2 e il 3 dicembre, qualcosa durante un ordinario intervento di manutenzione andò storto: grandi quantità di acqua, utilizzata per la pulizia dei tubi dell’impianto, finirono per sbaglio nella vasca del MIC, provocando una spaventosa reazione. Ma gli allarmi dell’impianto erano fuori uso, per cui gli addetti si accorsero troppo tardi della fuga di gas – e comunque non avrebbero potuto fare granché: anche i sistemi di sicurezza erano “in manutenzione” e tutto ciò che poteva bloccare la fuga non funzionò. Un’enorme nube fuoriuscì dalla ciminiera della UC e, più pesante dell’aria, fu spinta dal vento verso i quartieri nord di Bhopal – dove, guarda che strano il destino, si concentrano le bidonville e le zone più povere.

Quello che accadde poi è difficile da immaginare. Possiamo provarci elencando gli effetti conosciuti del MIC e del fosgene, altro gas che componeva la terribile nube: questi gas agiscono soprattutto sull’apparato respiratorio, e portano chi li inala – anche in minime quantità – a morire soffocato dai propri umori, tra terribili spasmi e conati. Per chi non muore subito, gli effetti a lungo termine comprendono danni permanenti alla cornea, congiuntiviti croniche, bronchiti croniche, fibrosi polmonare, tubercolosi, danni all’apparato neurologico (che si traducono per esempio in problemi di memoria o di coordinamento dei movimenti), danni all’apparato riproduttore femminile, tumori, degenerazioni genetiche.

Nessuno ha mai saputo calcolare con certezza le vittime di questo disastro. Le stime parlano di 3000 morti nella sola notte dell’incidente, altri 8000 nelle settimane successive, migliaia di migliaia negli anni seguenti. Altri dettagli aggiungono assurdità ad assurdità: anche di fronte a ospedali pieni di persone agonizzanti, la UC si rifiutò di dichiarare da cosa fosse composta la nube tossica, per cui i medici non poterono utilizzare degli antidoti adeguati. Warren Anderson, CEO della Union Carbide, volò a Bhopal, venne arrestato (!), poi rilasciato su cauzione, quindi riprese l’aereo per New York e non tornò mai più India, dove pende su di lui una condanna per omicidio colposo. Nel 1989 la UC raggiunse un accordo con le autorità indiane per risarcire 470 milioni di dollari – a fronte di una richiesta di almeno 3 miliardi.

Una storia già sentita, dalla Thyssen al Vajont, in luoghi diversi e su scale diverse ma con alla base sempre la stessa idiota superficialità, spinta da una necessità economica che si fa legge superiore. Una storia già sentita ma che bisogna ricordare e raccontare ancora, come tutte le altre, di fronte ai Moloch dal volto falso con cui ci tocca convivere.

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